Opera di Roma, ATTILA e i luoghi comuni.
Sabato 26 Maggio 2012 09:14

 

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Teatro dell'Opera gremito come per le grandi occasioni per l'Attila di Verdi , presentato in pompa magna con il nuovo allestimento di Pizzi e la concertazione del Maestro Riccardo Muti, entrambi -sulla carta- grandi esperti in materia. Almeno tre le grandi messe in scena realizzate da Pizzi nel corso della sua lunghissima carriera, innumerevoli le recite dirette da Muti un po' ovunque, dal Maggio Musicale Fiorentino alla Scala, persino al Met dove l'opera era pressoché sconosciuta.

Bisognerà ora fare una premessa per coloro che si avvicinano da neofiti a questo particolare repertorio. Attila è un titolo in cui il giovane Verdi profuse fiumi di buona musica, dall'intenso Preludio ai Cori,ai concertati, alcuni tra i più bei finali d'atto di tutta la storia operistica, ma anche arie e cabalette com'era in uso in pieno Ottocento, nel classico stile belcantistico derivante dal taglio delle opere rossiniane in primis e successivamente ripreso da Bellini e Donizetti. Verdi fu un amante e sostenitore assoluto del Belcanto, sarà bene ribadirlo: non mancò da studente le grandi prime scaligere, si entusiasmò per i trionfi canori di questa o di quell'altra virtuosa, visse in un'epoca in cui il successo di un autore dipendeva dalla messa in luce vocale e interpretativa dei solisti, fosse il soprano o il baritono, il tenore o persino il basso. In occasione di una ripresa di Ernani pregò l'amico Donizetti di inserire variazioni e puntature (i famosi acuti aggiunti al termine di una cabaletta o nel corso di una grande aria) per tutti i cantanti. Prassi normalissima che giustifica quindi i “da capo” scritti per ogni finale di scena,nonché i precisi segni dinamici posti da Verdi in partitura (la corona sulle pause orchestrali a significare cadenze o variazioni) e i frequentissimi accordi ribattuti che chiudono enfaticamente ogni “numero” ,quasi sempre sovrastati dall'acuto di prammatica. L'autore non aveva certo bisogno di ribadire la tonalità di do maggiore, tanto per fare un esempio, con una raffica di sol-do sol-do sol -do dell'orchestra, così...tanto per far baccano. Era evidente che tali accordi servivano di sostegno all'acuto del soprano o del tenore di turno...altrimenti l'autore avrebbe scritto una meravigliosa Coda, cosa che puntualmente avviene laddove Verdi (e gli altri) giudicavano ciò necessario.

 Ora , fatte queste debite premesse di ordine belcantistico, notiamo un atteggiamento in Muti che ribalta questa situazione in favore...di sé stesso . Fatto che non dovrebbe stupire considerando la grande considerazione che il Maestro nutre per la sua immagine, ma che invece lascia basiti se si considera il luogo comune che vorrebbe Muti come “dispensatore unico e irripetibile delle sacre volontà dell'Autore”. Verdi in primis e l'Attila in particolare. Così non è. I da capo delle arie di Odabella, Foresto, Attila ed Ezio, vengono eseguiti da  Muti  tutti così come sono scritti, pedissequamente, senza una sola variazione e senza una sola puntatura acuta (a dire il vero, timidamente, il solo Nicola Alaimo ha  aggiunto due noticine diverse nel da capo di “E' gettata la mia sorte”, così....per concessione divina). Il risultato è uno solo: quello di stancare i cantanti e di far apparire ogni cabaletta pesante e noiosa. Esattamente quello che Verdi non voleva, il contrario di ciò che una recita teatrale dovrebbe proporre. L'intera concertazione mostrava le caratteristiche ben note: un piglio paratoscaniniano , l'incalzare dei crescendi, l'esplosione dei fortissimi, con piatti, timpani, grancassa e ottavino in evidenza. L'accompagnamento delle arie generalmente ansioso e ansiogeno, la sensazione è quella di un respiro che manca o che viene mozzato in gola al povero cantante: una gabbia ritmica entro la quale doversi muovere alla “si salvi chi può”. I momenti migliori sono stati il Preludio dell'Opera e il concertato che chiude la scena di Papa Leone, sufficientemente misteriosa e cupa come Verdi esige. Lo sgabello elevato richiesto da Muti lo proponeva al pubblico in maniera sovrastante, tipo Stokowsky in “Fantasia” e l'atteggiamento era quello del “io ci sono” e l'Orchestra...pure.

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Ne hanno fatto le spese soprattutto la Odabella affaticata di Tatiana Serjan, che pur con le unghie e con i denti ha cercato di restare a galla fino all'ultimo, con encomiabile sforzo. L a voce c'era fino alla sua terribile entrata “Santo di patria”, eternata da un memorabile disco di Joan Sutherland (quello sì entusiasmante) : la Serjan tende a gridare sugli acuti e soprattutto a spingere, quello è il suo guaio, ma se a ciò aggiungiamo l'accompagnamento implacabile, pesante a tratti, voluminoso oltre misura del concertatore, è facile rimetterci le penne e così di fatto è accaduto nella seconda parte dell'opera, in cui la Serjan si è presentata in difficoltà con l'intonazione e con metà della sua voce, che già non è tanta quando è tutta.

Un'altra vittima designata il tenore, qui era Giuseppe Gipali, costretto a giocare perennemente sulla difensiva. Voce di suo non grande, più adatta a repertorio leggero, umiliata dal confronto con il grande Antonello Ceron (magnifico Uldino), è rimasto travolto dai flutti sonori della cabaletta “Cara patria” ma anche ha sofferto nei duetti ed è sparito nei concertati, dove l'effetto “pesce” ha fatto pensare a una totale afonìa.

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Le cose sono andate decisamente meglio con Ildar Abdrazakov, basso di bellissima voce e di sicura resa musicale, che però-a mio giudizio- non possiede esattamente la caratura specifica verdiana: mi pare più una perfetta vocalità rossiniana, troppo spesso la voce risulta leggera, senza le classiche arcate di fiato richieste da frasi come “e l'alma in petto ad Attila si agghiaccia pel terror” e con note basse non troppo sonore. Tuttavia la bellezza del colore e la grande interpretazione lo hanno aiutato a sostenere il ruolo e a uscirne con un egregio risultato, doppiamente bravo considerando la battaglia per superare quel muro orchestrale e la baldanza tonitruante del Coro.

Meglio ancora il baritono Nicola Alaimo, che si è presentato in gran forma, con recitativi scolpiti e nitidissimi e una cantabilità sempre molto calibrata nel legato e sicurissima nella zona acuta. Splendido, ad esempio, il difficile sol acuto di “la patria leverà” nel recitativo accompagnato che precede l'aria “Dagli immortali vertici”. A questo si aggiunga l'imponenza del personaggio e la maschera, davvero impressionante in quanto a espressione e forza interiore. Mi permetto solo di suggerire a questo giovane cantante una maggior attenzione all'omogeneità del suono su tutte le vocali, ogni tanto ha la tendenza a mollare il fiato su qualche “e” o a schiarire troppo qualche “a”, con l'effetto di interrompere la bellezza del flusso sonoro e del colore baritonale.

Magnifiche le frasi di Luca Dall'Amico come Papa Leone. La sua apparizione, in fondo alla scena, mi ha fatto pensare che si trattasse dello stesso Pizzi, tale era la somiglianza. Poi, udita la sonora voce di basso (persino più sostanziosa rispetto a quella di Attila) ho capito che non era lui.

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Veniamo allo spettacolo di Pizzi. Grigio era il colore dominante. Grigia la scena, un muraglione a mò di saracinesca di garage che separava il proscenio, rialzato, da una riproduzione parziale della Basilica di Massenzio, anch'essa grigia e bianca, grigi i praticabili, appena interrotti da quattro gradoni bianchi in finto marmo, grigi e nerastri i costumi dei coristi, fossero Unni, Eruli, Ostrogoti o indifferentemente Eremiti. Un impianto imponente ma francamente non bello: già visto mille volte in tante Tosche (l'ultima di Bondy ma anche quella di Miller a Firenze nel lontano 1991) o nel Tristano alla Scala di Patrice Chéreau, con i luoghi comuni che si ripetono implacabili e taluni effetti evitabili: il su e giù della saracinesca o dello spaccato della Basilica alla lunga stancano e non regalano alcuna emozione. Un allestimento che poteva andar bene per almeno altri 10 titoli ed è questo il nostro suggerimento: che venga almeno utilizzato per qualche prossima Norma, Don Giovanni, Nabucco, Tosca. Almeno si risparmia. Circolano parecchie voci sui costi di questo allestimento , certamente assai oneroso: mi chiedo come possano essere sperperati tanti soldi quando eliminando uno zero dal budget si sarebbe potuto fare assai meglio e con maggior fantasia. In un momento, poi, di grave crisi per tutti e per il teatro d'opera in particolare. Tutto ciò non aiuta i nostri politici a evitare i famigerati tagli e il concetto della “cultura vista come spreco di danaro pubblico”, anzi....incentiva.

La regìa di per sé si limitava a far entrare e schierare il Coro davanti al concertatore, Odabella aveva dall'inizio alla fine dell'opera la spada in mano (pessima l'uccisione di Attila, palesemente fasulla....ma dico: con tutte le prove che si avevano a disposizione???), Ezio troneggiava , Attila si agitava in vestaglia rossa ed era l'unico, in fondo, che cercava di dinamizzare il suo personaggio, a metà strada tra Don Giovanni e Mefistofele.

Orchestra e Coro hanno dato il meglio di loro stessi, con una nota di particolare merito per il mitico ottavino di Lorenzo Marruchi.Un bel successo per tutti ma non al livello del concerto di Juan Diego Florez della sera prima, a Santa Cecilia.