IL NUOVO RICCARDO MUTI |
Venerdì 08 Marzo 2013 11:45 |
Hanno suscitato un certo scalpore le mie recensioni dell'ultimo Muti all'Opera di Roma, o meglio le mie considerazioni positive sulla sua direzione dopo anni e anni di stroncature anche feroci. C'è chi ha parlato di revisionismo storico, c'è chi ha strabuzzato gli occhi, c'è chi ha addirittura tirato in ballo San Paolo sulla via di Damasco. In molti mi chiedono quali sostanziali differenze vi siano tra le esecuzioni di Riccardo Muti prima della sua venuta a Roma e adesso, che si è stabilmente collocato presso il teatro della Capitale con la nomina (un po' menagrama) di “direttore a vita”. Rispondo volentieri. Non vi è nulla di mistico o di visionario: non ho avuto sogni o illuminazioni improvvise. Tutte le volte che entro in un teatro, vorrei fosse chiaro, io entro in una Chiesa e così mi comporto, cercando di concentrarmi sul frutto del duro lavoro altrui: direttore d'orchestra, solisti, regista, Coro, Orchestra e tutti coloro che partecipano alla realizzazione di questo complesso meccanismo che si definisce Opera lirica.Sul podio, tanto per essere ancora più chiaro, potrebbe anche esserci Lino Banfi, o Rosy Bindi, o Valerio Mastrota (quello che fa pubblicità ai materassi in Tv). Non appena iniziata la prima battuta musicale ogni pregiudizio, ogni considerazione a latere della questione meramente esecutiva cessa e lascia il posto alla realtà dei fatti artistici, quelli che sono. A volte non so nemmeno i nomi in locandina, e li controllo alla fine, per non lasciarmi condizionare. Fatto sta che su Riccardo Muti io credo di aver compiuto uno studio molto approfondito, che parte non già dall'ammirazione bolsa e anche un po' ottusa di un “fan” qualsiasi (rispettabile sì ma pur sempre monomaniaco) ma dai fieri attacchi di un detrattore della prima ora. Di Muti (parlo del primo Muti, quello del Maggio Musicale fiorentino e del ventennio scaligero, arrivando ai primi anni 2000) non mi è mai piaciuta la spocchia e la boria : mi ha sempre fatto pensare a un anziano preside stizzoso o a un professore pieno di sé, con la voglia pazza di buttare fuori della classe l'allievo non prono alle sue discettazioni. Questo dato molto umano si riflette puntualmente sul Muti direttore e concertatore di un melodramma e ha dato luogo, ritengo, a esecuzioni boriose e spocchiose, in primis. Sul podio, mostrando un cipiglio volutamente cupo e minaccioso, mai un sorriso, la mascella volitiva e vagamente ducesca , il gesto rigido e a tratti violento, come se al posto della bacchetta vi fosse una mazza ferrata....questi ingredienti che fanno parte del personaggio,anche artatamente costruito per le case discografiche e la necessaria propaganda, me lo hanno via via reso antipatico e così, fatalmente, le sue esecuzioni.
Il tanto conclamato Verdi di Riccardo Muti è stato forse l'autore più strapazzato , ad onta di un preteso rigore filologico che - sempre seguendo le indicazioni pubblicitarie costruite intorno al “personaggio” - doveva essere la grande eredità di Toscanini, nientemeno. Ecco quindi gli accordi secchi e taglienti, le strette di concertati o finali d'atto simili a bombardamenti, i piatti in prima linea, le rullate di timpano simili a terremoti, le grancasse quasi sfondate, il leggendario finale del II atto di Aida a Monaco (1977) in cui si ode il barrito degli elefanti da parte degli ottoni, ecco il cannone utilizzato nel Dies Irae del Requiem, ecco il gong in Norma che simula il crollo delle stoviglie nel Barbiere di Siviglia, i finali di Puritani o Vespri che rievocano il terremoto di Messina. Insomma, un “toscaninismo” deleterio che non giovò al Verdi di Muti, surclassato dalla vigorìa nobile e pulita di un Gui, di un Votto, di un Boehm o di un Sawallisch persino (vedi: Macbeth) , dalla morbidezza poetica di un Abbado, dalla forza tellurica ma limpida di un Kleiber, ma alla fine...siamo sinceri fino in fondo....anche dalla regolarità classica e dalla perfezione dei tempi di un Serafin, di un Guadagno, di un Levine. La vicenda scaligera ha profondamente segnato Riccardo Muti: a parte i numerosi insuccessi spacciati dalla stampa (venduta e asservita:vergogna! Corriere della Sera e Repubblica in testa) per trionfi, quando i fischi piovevano a frotte in occasione di ogni Prima, io direi che il vero dramma si consumò quando vi fu la ribellione dell'intero teatro (certamente pilotata, come ogni rivoluzione lo è!), contro Muti, reo di voler imporre Mauro Meli per l'incarico di sovrintendente. 700 dipendenti votarono all'unanimità per la rimozione del plenipotenziario direttore musicale. Muti resistette , caparbio, altri 15 giorni. Vi fu una umiliante raccolta di firme davanti alla Scala, con delle manciate di voti a favore e un tragico disinteresse. Muti dovette cedere e, conoscendo il carattere del Nostro, credo sia stata una botta micidiale, di quelle che segnano l'anima e il fisico. La proposta romana fu vivifica e Muti visse l'incarico presso il teatro capitolino come una sfida . Nei colloqui preliminari alla firma del contratto, impose tutta una serie di diktat: via questo e via quello, ma la richiesta più sintomatica fu quella di inaugurare la stagione non più a gennaio, bensì il 6 dicembre, un giorno prima del fatidico Sant'Ambrogio, il giorno cioé della Prima alla Scala. Ecco, in questa richiesta c'è tutto Muti, l'orgoglio del tipico uomo del Sud e anche la tipica permalosità.
Roma ha accolto Muti con un abbraccio affettuoso ed entusiasta, soprattutto l'ochestra e il Coro del Teatro. Il carattere romano è fondamentalmente pigro e indolente, ma è buono. Non dimenticherò il primo atto di Otello, che fu il debutto di Muti a Roma: i violini suonavano come se fossero uno solo, gli archi andavano assieme come MAI prima di allora, persino i frak sembravano più lucidi e stirati. L'ottavino, collocato alla sinistra di Muti come il konzertmeister,a un certo punto suonava all'inpiedi, colto da estasi. Accadeva anche a Gazzelloni, quando era primo flauto alla Rai di Roma:me lo raccontò Mehta. Un primo atto fantastico, perfetto: e Dio solo sa quanto è difficile il primo atto di Otello. Si notava un altro significativo dettaglio: gli ottoni. Quando era alla Scala, Muti otteneva dagli ottoni scaligeri delle sonorità secche, puntando sullo staccato veloce e su suoni che potremmo definire “a trombetta”, chiari, basati più sullo squillo che sulla densità. A Roma è diverso: gli ottoni, tromboni, corni ma soprattutto le trombe, hanno un suono più morbido e pastoso, per nulla petulante. Il suono nobile e sontuoso che Verdi richiede.
L'ho notato in Macbeth, in Nabucco, in Attila, in Simon Boccanegra (il finale del Prologo, spesso trasformato in Festa di Piedigrotta) , e ora nei Due Foscari. Inoltre Muti ha aggiunto una malinconia, una poesia, una delicatezza negli accompagnamenti che prima gli era quasi del tutto sconosciuta. Lo si accusava, a ragione, di travolgere i cantanti, di non farli respirare, di sommergerli con sonorità impossibili (vittime illustri furono la Studer, Zancanaro, Merritt, la Dessì e Pavarotti in Don Carlos, Coni, la Fabbricini, ma potrei citare schiere di cantanti costretti a lottare per la sopravvivenza). A Roma, quasi per incanto (ma grazie anche al rapporto di piena e gioiosa collaborazione instauratosi con l'orchestra, che è una delle migliori al mondo per l'Opera, diciamolo) gli assoli dei solisti sono assecondati con estrema cura e moderata sonorità, senza quella stizzosa violenza che pur si riscontrò in passato.
Mi hanno riferito di condizioni di salute non buone e di delicate operazioni subìte dal maestro Muti. Non voglio entrare nello specifico perchè sono problematiche personali e vanno rispettate come tali. Ma sono certo, come sempre succede, che talune meditazioni scaturiscono quando si avverte il pericolo, non quando si è nella miglior forma. Ascoltando con attenzione la scena finale del Simon Boccanegra e anche la morte del doge Foscari, “Quel bronzo ferale”, ho avvertito un nuovo afflato: non più la voglia di dimostrare qualcosa, ma la necessità di far pensare a qualcosa...che è diverso. E qui Muti e Verdi si sono ritrovati, generando quell'emozione che trasferita in chi ascolta compie un piccolo miracolo: quello di trasformare un detrattore in sincero ammiratore. |