VERDI, ROMA e...il "nuovo" MUTI |
Domenica 10 Novembre 2013 16:55 |
Sorprese notevoli tra le opere verdiane in CD che il Corriere della Sera distribuisce da alcune settimane, protagonista assoluto il Maestro Riccardo Muti e le compagini dell'Opera di Roma. Io credo che i complimenti generati da un rapporto 'critico' siano decisamente più sinceri e apprezzati dei plausi e degli inni levati al Cielo dai laudatores. Chi mi conosce e mi segue sa che nei confronti del Maestro Muti (da me simpaticamente chiamato “il Maeschhhtr' “) ho sempre applicato una regola ferrea e a volte dura: conoscere per giudicare, senza lasciarsi influenzare dallo scampanìo festoso dei cortigiani o della stampa asservita.
Di Muti non mi è mai piaciuta la spocchia e il tono cattedratico esibiti pubblicamente, quando invece nel privato propone un atteggiamento diametralmente opposto, più incline alla facezia e al battutismo. Il guaio di Muti è stata l'ombra gigante di Toscanini, manifestatasi ai tempi dei suoi studi giovanili con Antonino Votto, che di Toscanini fu assistente e seguace. Il baritono Valdengo, con il quale ho studiato per un certo periodo, soleva ricordare che tutti coloro che avevano avuto a che fare con Toscanini erano come “marchiati a fuoco” . In effetti la cosa si è tramandata ma non come logica ammirazione, bensì come imposizione di un para-toscaninismo superato e pesante,a volte persino grottesco. Ed ecco quindi le deprecate cabalette alla Speedy Gonzalez, il bataclàn delle strette, gli ottoni spinti al parossismo, l'Aida di Monaco, il filologismo ottuso e prepotente, i cantanti portati allo stremo, i fiaschi (puntualmente trasformati in trionfi dai solerti cronisti- cortigiani). Insomma: tutto ciò che ho sempre rimproverato a Riccardo Muti, con onestà critica e contro ogni interesse personale.
Ora c'è un netto cambio di rotta, che credo di poter individuare nel periodo che segue lo stressante ventennio scaligero e le conseguenti polemiche che portarono alla defenestrazione di Muti. Roma è una città lenta e pigra, mollemente adagiata sui suoi allori e sorretta dalla politica di regime: il Teatro Costanzi è uno dei tanti 'palazzi', assimilabile a Palazzo Chigi o a qualsiasi luogo in cui dimora il cosiddetto “Potere”. All'interno di questa culla, in tutta evidenza, il Maestro Muti si sente accolto come Egli reputa opportuno: come un uomo di potere al pari, se non addirittura di più, rispetto al musicista, all'artista. Respinto da una Milano che vede nei suoi confronti 'ingrata' e 'spietata' , Muti trova a Roma il suo grande riscatto e si produce in nuova veste: da Raìs (definizione di Zeffirelli) passa al grado più solenne di Senatore , dalla Madunina si arriva al placido Cupolone. Sta di fatto che lasciati da parte gli antichi clangori, le strette vorticose e le corse sfrenate , Muti si abbandona a inusitati slanci poetici nel Simon Boccanegra, trovando il culmine nella scena dell'agnizione tra il Doge e Amelia, proprio in quella scena che sembrava appannaggio assoluto dell'eterno rivale, Claudio Abbado. L'attacco degli archi sul tema dell'amore tra padre e figlia (uno dei grandi voli d'angelo verdiani) rivela un Muti che davvero non mi sarei mai aspettato: non più ansioso e teso, ma finalmente umano e vibrante d'una passionalità libera da qualsivoglia pregiudizio.
In questa nuova ottica, più meditata e tranquilla, è il Nabucco a mostrarsi come la perfetta antitesi con il primo Muti: lente e massicce le cabalette, in cui vengono concesse in taluni casi persino le variazioni nel da capo (significativa la cabaletta di Zaccaria “Come notte”) ; delicati gli accompagnamenti delle arie, con una meticolosa attenzione nel seguire il cantante e senza sovrastarlo con sonorità troppo impetuose; persino gli squilli di trombe e tromboni, un tempo inclini alla petulanza , oggi assumono un colore più denso e uniforme (vedi Simon Boccanegra, il finale del Prologo o l'apertura della scena del Senato; vedi Attila, vedi Macbeth). Peccato che nella serie di opere live proposte dal Corriere della Sera non vi sia l'Otello, con cui si inaugurò il rapporto con il teatro della Capitale. Il primo atto resterà,a mio parere, tra gli eventi musicali più straordinari cui abbia finora assistito, per la forza tellurica , la tenuta e la qualità generale dell'esecuzione, con Coro e Orchestra dell'Opera in stato di grazia.
Insomma un Muti che ripensa sé stesso e soprattutto abbandona l'antico modello toscaniniano, finalmente libero da un giogo “pericoloso”.
Il reparto cantanti vede schierate le eccellenze attuali, con alti e bassi, luci e ombre. Duole constatare che i nomi siano omessi dalle copertine dei dischi, come se non contassero nulla. E probabilmente per i responsabili del Corriere della Sera è così. Vogliamo però sottolineare che alcune prove sono eccellenti: il baritono Luca Salsi, per esempio, è uno dei pochi a saper modulare a mezzavoce momenti importanti come “Tremin gli insani” o “S'appressan gli istanti” in Nabucco; il tenore Francesco Meli, approdato a ruoli che gli calzano a pennello, regala emozionanti momenti come Gabriele Adorno e nella non facile parte di Ismaele;il basso Abdrazakov è un fantastico Attila, per tempra e baldanza eroica; il baritono Nicola Alaimo è un Ezio imponente, anch'egli perfetto nello scandire le frasi seguendo l'arco verdiano e certamente le indicazioni volute da Muti, che -com'è noto- fa un grande lavoro di sala con i cantanti. Il basso Zanellato canta l'impervia parte di Zaccaria e riesce a venirne a capo con onore e così il suo collega, Beloselsky, che come Fiesco rappresenta un ottimo carattere, forse un po' debole nelle note gravi rispetto all'efficace registro acuto. Magnifiche le parti di fianco, con due elementi di spicco, come il basso Luca dall'Amico (Papa Leone in Attila) e il tenore Antonello Ceron , Uldino squillante e vigoroso.
I.Abdrazakov (Attila), G.Gipali (Foresto)
Nel reparto femminile , in Simon Boccanegra brilla la Amelia lirica e limpida di Maria Agresta, un soprano che oltre a saper cantare splendidamente, ha avuto in dono un colore di voce raro a trovarsi. Tatiana Serjan come Abigaille , Lady Macbeth e Odabella riesce a scavalcare le onde perigliose delle tre parti, a volte con straordinaria forza ed efficacia, ma il colore non è dei più affascinanti (non si può avere tutto). Già è tanto che arrivi a cantare tutte le note scritte da Verdi e senza risparmio alcuno: in teatro, tra l'altro, offre una figura molto adatta e una recitazione sempre avvincente.
T.Serjan (Lady Macbeth)
Insomma, ci voleva l'Opera di Roma e il bicentenario verdiano per farci rivalutare Muti, una piacevole sorpresa che mi fa dire , come James Bond: nella vita o nel melodramma...”mai dire mai”.
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