ARENAdi VERONA, AIDA e TURANDOT UNO-DUE |
Mercoledì 16 Luglio 2014 23:41 |
In gergo pugilistico si direbbe uno-due: l'Arena assesta due colpi vincenti proponendo l'Aida nouvelle vague con l'allestimento della Fura dels Baus e la Turandot favolosa di Franco Zeffirelli, giunto questa sera a raccogliere i meritatissimi applausi.
E' un confronto ravvicinato tra due modi diversi di concepire lo spettacolo operistico: da un lato il lavoro meticoloso e immaginifico del gruppo spagnolo, che trasforma l'omaggio al Kedivé d'Egitto in un gioco caleidoscopico di effetti, luci, macchine a volte macchinose, comunque soluzioni sempre coinvolgenti e laboriosamente meditate; dall'altro la grande favola raccontata da un Maestro che ha segnato con le sue produzioni la Storia dell'Opera e che trova proprio in Turandot il terreno ideale per il suo gusto pittorico, scenografico, coreografico, strappando più volte applausi a scena aperta.
Continuando con la metafora pugilistica, direi che ai punti ha vinto Zeffirelli. La scena in cui si aprono i pannelli che fungevano da mura di cinta della città di Pechino , mostrando la città che custodisce Turandot e la sua corte, con quelle meravigliose ancelle rosa che paiono una nuovola di cipria in mezzo all'accecante bagliore dorato...solo quella scena vale tutto lo spettacolo e difatti strappa, caso rarissimo, ben DUE applausi a scena aperta. E' un capolavoro davvero, frutto di un gusto raffinato e d'un lavoro che somiglia più a quello d'un pittore: è tale un grande regista è...un pittore e un narratore CHIARO. La Turandot di Zeffirelli vola via in un battibaleno perchè è bella, scorrevole, piacevole; lasciando il teatro i volti degli spettatori sono sorridenti, felici, gli applausi torrenziali, i flash dei vari Ipad e dei cellulari sono una festa nella festa: questo è Teatro, con la T. Ogni tanto, credetemi signori, FA BENE ripassare un po' di teatro vero, dopo il profluvio di cazzate (perdonerete il termine poco politically correct ma, come sapete, sono allergico a questa ipocrita forma di buonismo ) da cui spesso siamo afflitti.
Dell'Aida proposta dalla Fura dels Baus ricorderemo le straordinarie dune, ottenute con teli gonfiabili e un gioco di luci eccezionale, che finalmente hanno risolto l'annoso problema della parte retrostante il palcoscenico, condannata alle tenebre (come nel Ballo in maschera di Pizzi, per esempio) o tutt'al più affastellata di scenografie non sempre riuscitissime. Molto interessante anche il gioco mimico dei ballerini e delle comparse, volto a commentare in modo sapiente e mai banale ogni momento di ogni quadro, quasi senza sosta. Molto bello anche il Nilo, realizzato con un interessante percorso acquatico, e la processione infinita di uno stuolo di comparse munite di globi luminosi per tutta l'Arena fino ad arrivare in cima. Insomma un'Aida dove non ci si annoia mai e dove si avverte l'amore per il proprio mestiere e il senso forte dello spettacolo. Rispetto agli eccezionali costumi di Emi Wanda per Turandot, quelli di Chu Uroz sfiguravano abbastanza, ma è come paragonare Messi con Balotelli.
Le voci.
Ho trovato straordinaria la prova di Hui He come Aida, cantata con timbro vellutato e con tecnica sicurissima, dal pianissimo al fortissimo; così anche Ambrogio Maestri, roccioso e tonante Amonasro in stile “vilain” , padre un po' troppo rude forse ma che con il suo vocione riempie l'Arena. Bene Lucrecia Garçia come Amneris, anche se il personaggio era un po' troppo statico; Walter Fraccaro dà sicurezza e risolve molto bene il finale, con morbide mezzevoci, ma quando sale all'acuto schiaccia i suoni su una fastidiosa “e”, così il “trono vicino al sol” tende a diventare un “treno vicino al sel”, in vernacolo vagamente barese. Ottima la coppia dei bassi e il Messaggero di Saverio Fiore. Sul podio uno schematico Kovatchev, che cerca di portare a casa il risultato senza grandi finezze ma con qualche imprecisione qua e là.
In Turandot tutto il cast italiano (caso ormai rarissimo), dalla protagonista, Tiziana Caruso, di voce forte e tagliente, ogni tanto intimidita dai punti nodali (“quel grido” , il si un po' troppo “gridato”) ma alla fine imperiosa; Marco Berti, dimagrito e baldanzoso, che gioca i suoi assi nella quantità della voce e sui azzeccati pianissimi (“il mio nome non sai...”) , bene anche sugli acuti che hanno squillo (ma il famoso “vincerò” stavolta un po' calantino); il soprano Rachele Stanisci come vigorosa Liù, per nulla svenevole o leggera (come talvolta capita di sentire) ma direi piuttosto una Tosca in trasferta a Pechino, molto meglio nella seconda aria che nella prima e molto meglio nel canto spianato che nei legati a mezzavoce;ottimo il basso Giuseppini, che ha strappato un grande applauso dopo l'acuto di “si vendicherà” prima della trenodìa funebre di Liù. Bene le 3 maschere, in particolare Saverio Fiore che emergeva su tutti come Pang e ça va sans dire un vero “fulmine di guerra” Antonello Ceron come Imperatore, per nulla intimidito dalla didascalìa pucciniana che lo vorrebbe tremulo e senescente, si è invece prodotto in una versione Viagra dell'anziano Altoum. Una segnalazione a parte merita il perfetto Mandarino di Gianfranco Montresor. Daniel Oren sul podio , da par suo, ha trasformato l'orchestra in uno strumento duttile e pieno di colori, con una dinamica sempre ricchissima e coinvolgente.
In entrambe le recite Coro e Orchestra straordinari, sia per la tenuta sia per lo smalto timbrico e la precisione. A loro anche gli applausi convintissimi del pubblico. Domani tocca all'alieno Placido Domingo, che si esibirà in un Galà estremamente impegnativo, interamente verdiano .
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