Rigoletto disordinato all'Opera di Roma
Lunedì 05 Dicembre 2016 22:22

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Uno strano Rigoletto quello allestito all'Opera di Roma in questi giorni, purtroppo allineato a tanti spettacoli complementari e omologhi: l'azione si sposta ai nostri giorni, in un non meglio identificato “Palazzo del Duca” , una serie di tende che salgono e scendono dando l'impressione dei fatidici quattro stracci appesi, poche suppellettili, brutte luci che tengono quasi sempre in penombra o al buio i protagonisti. Poco. Troppo poco per un'opera così forte, così amata, così complessa e così bella. La Bellezza è oggettiva così come la Bruttezza: questo Rigoletto con la regìa di Leo Muscato, le scene di Federica Parolini e i costumi di Silvia Aymonino è decisamente e irrimediabilmente brutto. Come si può presentare Maddalena nell'ultimo atto con una coroncina in testa tipo Regina della Notte e una mise completamente priva di qualsiasi sensualità? Rigoletto con una finta gobba a vista, sempre dritto in piedi e di tanto in tanto colto da ballo di San Vito? Gilda che si confonde con Giovanna? I cortigiani che da cinici e sprezzanti esecutori degli ordini ducali si trasformano in ilari clowns?

Dov'è la fosca tragedia? Dov'è l'orrore e il dramma se si finisce in più punti per ridere?

Le cose non migliorano con la direzione d'orchestra del maestro Michele Gamba che lodevolmente si impegna a mantenere un ritmo stringato e incalzante ma in un perenne mezzoforte , a tratti così forte da coprire le voci di alcuni interpreti (vedi per esempio il pur bravo basso Dario Russo e la Maddalena di Erika Beretti, sommersi dai flutti sonori del terzetto nella Tempesta). Un altro rimprovero è ancor più grave, quello di non aver imposto una linea comune a tutti gli interpreti in merito alla ormai annosa (e noiosa) questione del Rigoletto “filologico” approntato dall'edizione critica a firma Martin Chusid. Che senso ha ascoltare la versione fedele all'originale eseguita dal baritono, Luca Salsi, quando gli altri fanno -come si dice a Roma- “il cavolo del comodo loro” , con tutti gli acuti di tradizione, le cadenze, le puntature e i tagli? Una gran confusione e basta.

Ho voluto approfondire la scelta filologica con il protagonista, Luca Salsi, in una conversazione in cui mi sono state spiegate le scelte adottate:-” Non ho paura degli acuti, la parte ne prevede tanti da non doverne aggiungere. E' una mia scelta perchè sento che il personaggio non debba abbandonarsi a inutili sparate per strappare un applauso in più . E' un ruolo che adoro ma che, confesso, mi pesa molto: da quando entri stai sempre in scena, impegnato su tessiture impervie, che chiedono tantissimo vocalmente e psicologicamente. Io sul palcoscenico voglio divertirmi, non voglio soffrire per un ruolo che non sento adatto a me, per cui dopo un'ultima produzione ad Amsterdam, cui tengo molto, lo metterò da parte. Mi dedicherò a tanti altri ruoli che sento più miei come Macbeth, Simon Boccanegra, Gérmont, Foscari, debutterò Gérard in Andrea Chénier, Amonasro con il maestro Muti a Salisburgo...”.

Coerente con quanto dichiarato, Salsi ha interpretato un Rigoletto molto sofferto, interiorizzato, con un canto morbido e incline alla mezzavoce accorata, ma pronto a scattare in un impetuoso “Cortigiani vil razza dannata” e in un finale davvero coinvolgente.

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Il tenore Ivan Magrì , chiamato a sostituire il collega Pretti influenzato, è un Duca sicuro e di buona resa, se non fosse per uno strano effetto “a risucchio” che inficia la sua gamma acuta: sonori e schietti i centri, poi dopo il passaggio la voce viene proiettata all'indietro perdendo di efficacia. Peccato, perchè le carte ci sono tutte per superare una parte tra le più impegnative del repertorio verdiano.

Buona la prestazione del soprano Lisette Oropesa, che nonostante una voce non grande e con un po' di vibratino, ha saputo conquistare tutti con una linea molto corretta e un bel gioco di colori, sicurezza nei sopracuti e nei diminuendi in zona alta che le hanno valso grandi applausi alla fine.

Bravo il basso Dario Russo, nonostante la regìa gli togliesse molta di quella terribilità che caratterizza gli Sparafucile di vaglio, mentre molto modesta la prova di Erika Beretti, che mi è parsa più un soprano corto che un vero contralto, penalizzata da un costume francamente inadatto.

Degli altri è degno di menzione per la sua straordinaria prestazione il Conte di Monterone di Fabrizio Beggi, voce che spiccava su tutti per squillo e autorità d'accento.

Lodevole l'iniziativa di utilizzare i ragazzi della Fabbrica dell'Opera per i ruoli minori.

Molto bene il Coro , forse un po' troppo numeroso, e l'Orchestra, soprattutto per gli assoli degli strumentini e degli ottoni, sempre molto precisi.

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