TROVATORE a VENEZIA , l'atteso debutto di FRANCESCO MELI |
Lunedì 05 Dicembre 2011 08:03 |
Venezia, T.La Fenice
Lungo e felice il connubio che lega il Trovatore alla Fenice di Venezia: una delle opere più belle e uno dei più bei teatri d'opera , i cui fantastici stucchi dorati sembrano l'ideale cornice del capolavoro verdiano. Non è un caso che uno degli incipit cinematografici leggendari sia appunto il finale del III atto del Trovatore in “Senso” di Visconti , dove la Fenice e la squillante “Di quella pira” salutata dai volantini insurrezionali restano il più bell'omaggio a questo teatro mai realizzato finora. La produzione cui ho assistito ieri, seconda recita pomeridiana, si è conclusa con un grande successo per tutti i protagonisti , eccettuata qualche sonora contestazione per il maestro Frizza, direttore e concertatore dello spettacolo. Luci e ombre, quindi, che sarà bene esaminare partendo dall'allestimento, firmato da Lorenzo Mariani. Brutto, decisamente brutto, con quel misto di polveroso e pretenzioso al tempo stesso, che produce il solo effetto di rimpiangere da un lato la serena compostezza di un Beppe De Tomasi e dall'altro la provocatoria brutalità di Calixto Bieito. Una scena spoglia, una strana landa semirocciosa a metà strada tra il Sahara e la strada che collega Avetrana a S.Cesareo in Puglia (senza gli ulivi secolari, però!) , sullo sfondo una riproduzione mal realizzata di Castel Del Monte, alcuni elementi che apparivano nel corso delle varie scene: un cavallo bianco di gesso, un drappo appeso che poi cadeva a terra nella scena del carcere (sollevando un nugolo di polvere),una enorme luna ora bianca ora rossa sul fondale, un letto (?!) nella scena dello sposalizio di Manrico e Leonora (in cui si presume debba consumarsi la prima notte, in barba alle “gioie di casto amor” vagheggiate dalla coppia) . Ma a parte la bruttezza delle scene, con quel castelletto sullo sfondo sproporzionato , è la regìa , a tratti strampalata, ad aver gravemente nuociuto allo spettacolo: “Venite intorno a me!” dice Ferrando all'inizio dell'opera e tutti sono intorno a lui da un quarto d'ora (?!) , Manrico canta “Ah sì ben mio” andandosene al proscenio e rivolgendosi al pubblico, senza mai filarsi la povera sua Leonora, costretta a raggiungerlo come per rammentargli “Ehi, guarda che ci sono anch'io!” , il Conte che si avventa su Leonora e la seduce (vestito di tutto punto!!!) al termine del duetto, mentre Manrico e Azucena passeggiano tranquillamente davanti a loro … insomma....ce n'è abbastanz a per stendere il classico velo pietoso su questo allestimento proveniente da Parma e che a Parma sarebbe dovuto rimanere, chiuso in qualche magazzino di cui andava persa la chiave. Ombre, purtroppo, anche sulla direzione d'orchestra, a cura del maestro Frizza. Non è stato Verdi ma direi piuttosto un Rossini giocoso, o il Donizetti della “Fille du régiment”: mancava il colore, plumbeo e denso, della autentica orchestra verdiana, l'orchestra suonava brillante sì ma leggerissima, con accordi staccati e petulanti, e tempi davvero strambi: velocissime le arie , “Ah sì ben mio” sembrava “Ah non giunge” , il finale di Sonnambula. No. Più che meritate le contestazioni al direttore che, evidentemente, non si trova a suo agio in questo repertorio o ne ha un'idea tutta sua, non condivisibile. Protagonista, attesissimo, il tenore Francesco Meli , che debuttava Manrico dopo una brillantissima carriera che lo ha visto emergere nel classico repertorio belcantistico. Voce di magnifico smalto e naturale lucentezza, dizione scolpita, volume e fraseggio da grande interprete: una prova che almeno per un buon 98% può dirsi non solo riuscitissima ma pressochè perfetta. Un Manrico giovane (com'è in realtà) , ardente, autorevole. Chiude il primo atto con il re bemolle all'unisono con Leonora (“E' psicologicamente più facile” , confesserà nell'intervista dopo lo spettacolo), svolge in modo encomiabile i duetti con la madre, cesella l'aria “Ah sì ben mio” con intenzioni e morbidezze inusitate e arriva alla Pira , che è lo scoglio forse più temuto dell'intera storia operistica, con quel minimo di lecita preoccupazione concessa a ogni giovane interprete e ,a maggior ragione , da concedersi a un Manrico giunto alla sua seconda recita. La cabaletta viene eseguita due volte, abbassata di tono (si maggiore in luogo del temuto e temibile do ), il primo “ o teco” è preso ma con evidente paura e suona decisamente indietro, il secondo si acuto, l'”all'armi”, è più convinto all'inizio ma si chiude in modo avventuroso, con la gola che interviene proditoriamente. Ho parlato di questo con Francesco Meli, che molto onestamente ha confessato di aver sempre avuto problemi con la sezione acuta della sua voce e che fin dagli esordi ha cercato di evitare le parti troppo estese. In futuro non accetterà , ha detto, ruoli più impegnativi di questo e continuerà con le sue Traviate,Rigoletto, Lucia. “Otello? Nemmeno per idea: è stata una proposta di un direttore artistico (l'omonimo Meli di Parma, n.d.r.) per un Otello particolare, ma per ora non se ne parla. Continuo con le mie opere.” Così ha detto Francesco e io gli auguro vivamente di proseguire in tal modo il suo radioso percorso. Maria José Siri era Leonora. Magnifica interprete, al pari del suo amato trovatore, in grado di superare tecnicamente ogni ostacolo, compresi i pianissimi in zona acuta alternati a splendide salite al do, soprattutto nella tremenda cabaletta del IV atto. La voce non è bellissima, un po' aspra, ma possiede un colore brunito che dà carattere ai suoi personaggi e l'interprete è sempre molto varia e partecipe. In scena si muove con eleganza e con l'allure dei grandi interpreti. Il baritono Vassallo, Conte di Luna, ha sfoderato un bel colore e un volume notevole, con la giusta protervia che deve a tratti caratterizzare questo personaggio. Peccato che nell'aria “Il balen del suo sorriso” abbia avuto problemi di intonazione e che spesso l'aggressività abbia avuto la meglio sulla morbidezza del suo canto, che resta tuttavia molto autorevole e di alta qualità. La Simeoni come Azucena merita un discorso a parte. La voce è molto chiara, addirittura più chiara di quella della Siri, e in talune scene come per esempio l'aria “Stride la vampa” e “Condotta ell'era in ceppi”, mancava la cavata dell'autentico mezzosoprano verdiano e la pienezza del registro grave. Non è questione, come ho sentito dire, di un'Azucena giovane o anziana, è questione di VOCE....vorrei fosse chiar questo concetto. Ma attenzione: la Simeoni sa cantare con la sua voce meglio di tanti mezzosoprani, anche importanti. E' musicalissima, possiede un fraseggio perfetto, sale al do e al si bemolle con facilità, interpreta con grande partecipazione emotiva, alla fine convince, nonostante i rilievi di cui sopra. Non le direi mai di insistere troppo con Verdi ma mi piacerebbe ascoltarla in tante opere dove si richiede un solido registro acuto e una sicura interprete. Giorgio Giuseppini come Ferrando ha avuto buoni momenti nel registro medio-grave, ma in affanno sugli acuti. Tra i comprimari bene la Ines di Antonella Meridda, meno bene Mattiazzo come Ruiz. |