MUTI debutta SIMON BOCCANEGRA : grande cast, grande successo.
Mercoledì 28 Novembre 2012 18:15

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A volte un debutto può essere una ottima occasione per avvicinarsi con cautela e maggior concentrazione a un'opera di non facile esecuzione. E' quello che è avvenuto con il “Simon Boccanegra” di Verdi , per la prima volta diretto da Riccardo Muti all'Opera di Roma, teatro di cui- ricordiamo- egli è direttore a vita.

E' la prima volta , dopo una “Walchiria” alla Scala che recensii assai positivamente, che posso tranquillamente parlare di una eccellente esecuzione musicale  da  parte di un direttore  d'orchestra  che non ho mai amato molto.. Muti rinuncia completamente all'empito a volte bandistico che ha contraddistinto tutta la sua “prima maniera”, quel 'bataclan' erroneamente scambiato per passionalità mediterranea e invece frutto di una insensata imitazione para-toscaniniana , laddove i tempi dovevano essere serrati, i respiri affannosi, le strette isteriche e i clangori assordanti. Muti nel “Simon Boccanegra” è finalmente quello che sarebbe dovuto essere sempre: un concertatore attento, meticoloso e soprattutto mai invasivo nei confronti del canto. Il miracolo avviene grazie al debutto, cioè grazie a un'opera che in tutta evidenza il Maestro non aveva mai studiato se non in questa occasione, forse perchè ossessionato-ipotizziamo- dal confronto con il suo più diretto rivale, Claudio Abbado.

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Muti concede corone i cantanti, segue con docile bacchetta, accompagna la grande scena di Amelia riuscendo a dipingere una marina genovese di rara bellezza, si trattiene nella vorticosa Scena del Senato, persino limitando le sonorità (che pur rievocano le telluriche atmosfere del Dies Irae nel Requiem) e cercando piuttosto colori tenui, morbidi, cupi ma non tenebrosi.

Un Simon Boccanegra asciutto, a tratti persino dimesso (se si conoscono e si apprezzano le edizioni dirette da Abbado, da Gavazzeni, da Santini e persino da Patané), ma rispettoso e umile: una versione di Muti che mi ha davvero sorpreso, positivamente. Così come lo stato di grazia dell'Orchestra e del Coro dell'Opera, che quando c'è Muti si trasfigurano.

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Un cast eccezionale inserito in questo notevole contesto musicale: il baritono rumeno Petean, allievo di Giorgio Zancanaro, si è presentato come un Simone umanissimo, di nobile e vigorosa linea vocale, bellissimo timbro nonostante lo squillo sia latente nei momenti di maggiore accensione drammatica: il suo “E vo gridando pace” non ha la forza dirompente del tipico baritono verdiano (già? E dove sono i baritoni verdiani?) alla Cappuccilli, alla Taddei, per capirci, però Petean è intelligente , musicale e risolve con la forza dell'accento. Bellissimo il finale del duetto dell'agnizione e la scena della morte.

Maria Agresta è Amelia , ruolo ideale per questa artista sensibile e dotata di una voce angelica, dai pianissimi vincenti . Splendida nell'aria d'entrata e nel duetto con il baritono, perfetta direi nei duetti con Gabriele Adorno, intensa e delicata nella scena finale, la Agresta è sicuramente il miglior soprano lirico oggi in circolazione: voce vellutata di magnifico colore, estesa fino a un sicurissimo mi bemolle, duttile, intonatissima, dolce, espressiva. Non so quali altri aggettivi usare per lodarne le virtù. Unico neo, ma non è colpa sua: troppo statico il suo personaggio, ne è responsabile una inesistente regìa.

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                                               F.Meli (Gabriele  Adorno)- M.Agresta (Amelia)

Che il tenore Francesco Meli fosse un grande artista , si è detto e sostenuto in tante occasioni e quand'era il caso anche puntualizzando certe esecuzioni meno riuscite, proprio perchè la sua è una delle vocalità più preziose oggi al mondo. Stavolta, senza se e senza ma, una esecuzione magistrale:a partire dalla dinamica interna del personaggio di Adorno, da quando entra alla scena finale, nonostante una regìa assente, Meli è riuscito a conferire una autorità straordinaria al suo Adorno. Vocalmente brillante e persino poderoso nel lucentissimo si bemolle di “Pel ciel! Uom possente sei tu” del Senato, Meli non ha trascurato una sola virgola espressiva, puntando sul carattere, impreziosito da mille controscene, espressioni giuste a seconda delle varie situazioni. Magnifiche le mezzevoci sulle perigliose frasi che siglano i duetti con Amelia e il finale “Padre!Padre!” , il migliore che io abbia mai ascoltato in teatro.

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Non ha sfigurato e anzi ha colpito la bellissima vocalità di Dimitri Beloselsky , basso dal registro acuto magnificamente emesso, meno efficace nel registro grave. I suoi duetti con Simone sono stati l'acme drammatico dello spettacolo.

Non mi è piaciuto l'impacciato Paolo di Quinn Kelsey, una specie di Quasimodo dal vocione greve e tonante, mentre straordinarie le prestazioni dei comprimari “di lusso” Riccardo Zanellato , Simge Buyukedes come Ancella e il tenore Saverio Fiore, magnifico Capitano.

Regìa, si è detto, inesistente. A firma di Adrian Noble: cantanti schierati davanti al Maestro, occhi fissi sulla bacchetta (a parte Meli e qualche volta il baritono e la Agresta), una regìa come si poteva vedere 30 anni fa in qualsiasi teatro di provincia.

Belle le scene di Dante Ferretti: grandi pareti bugnate in stile genovese, fondale azzurro con il mare in lontananza, due grandi catene che pendevano dall'alto, luci calde e ben disegnate da Alan Burrett, costumi tradizionali e importanti a cura di Maurizio Millenotti.

 

In sala il duo Napolitano-Monti, che ricordano gli “inseparabili “  inseparabili1 , omaggiati da una esecuzione garibaldina  dell'inno da parte del maestro Muti.

Grandissimo  e  meritatissimo  successo per tutti, eccezion fatta per qualche “buuh” al regista.