ALL'ARENA DI VERONA RISPLENDE LA TURANDOT FIRMATA ZEFFIRELLI |
Sabato 19 Giugno 2010 14:19 |
“Al tempo delle favole” dice il libretto di Adami e Simoni collocando la “Turandot” in un preciso contesto, immaginifico e arcano e così fa Puccini, regalando al mondo l'ultimo suo capolavoro e lasciandolo incompiuto, per il sopraggiungere della morte. L'Arena di Verona, grazie al doveroso e per molti versi “storico” omaggio a Franco Zeffirelli, inaugura la sua 88ma stagione con uno spettacolo che riporta appunto al tempo delle favole.Il coup-de-théatre giunge puntuale al cambio scena che separa il terzetto dei dignitari dall'entrata dell'Imperatore Altoum: dal buio, tetro e inquietante in cui si muove il popolo alla luce di un palazzo interamente d'oro, stupendo negli infiniti dettagli e reso ancor più magico dall'invasione di costumi brillanti, in cui dominano le ancelle in rosa tenue. La tavolozza dei colori usati da Zeffirelli è pari soltanto a quella orchestrale inventata da Puccini, ed ecco che ancora una volta si realizza il perfetto connubio tra ciò che è scritto in partitura e ciò che si vede sulla scena, fatto ormai sempre più raro e desueto per chi normalmente frequenta il melodramma. “Amo l' opera e cerco dal più profondo di portare avanti una linea consegnataria della grande tradizione lirica italiana, ma oggi talvolta si favoriscono solo categorie di bassa cultura, facendoci perdere l'occasione per far valere la forza artistica italiana.(...) anch'io posso fare delle cose stupide, senza senso, come usa oggi in maniera spudorata. Sarebbe facilissimo.” Così dice Zeffirelli in una intervista rilasciata a Gianni Villani e riportata nel programma di sala. Mi pare colga perfettamente il nodo centrale della questione . Ma la miglior risposta viene fornita ancora una volta dai fatti:la nuova produzione areniana di Turandot è di rara, preziosa bellezza e quando la reggia di Altoum risplende d'oro nel finale, con Calaf in abiti regali e lo sventolìo festoso di un palcoscenico ricco e lussuoso, come l'Opera deve essere, vien da gridare: FINALMENTE! Questa è l'Opera che amiamo e che sa farsi amare! Menzionerei i costumi di Emi Wanda, come tra i più belli mai visti, gli ottimi movimenti coreografici creati da Maria Grazia Garofoli e il disegno luci, perfetto, creato da Paolo Mazzon. La parte musicale era affidata alla concertazione di Giuliano Carella, precisa, attentissima e meticolosa ma proprio per questo eccesso di pignolerìa un po' avara di quegli abbandoni lirici che pur Puccini pretende, soprattutto quando si tratta di cantare assieme ai cantanti. Sono certo che nelle recite successive alla Prima vi saranno dei sostanziali e continui miglioramenti in questo senso e che il maestro Carella, passata la lecita tensione della Prima, si abbandonerà di più. Da ricordare che la Turandot proposta in Arena, per volere del regista, si è chiusa con la parte finale del lungo duetto completato da Alfano, quasi una stretta festosa e positiva dopo la trenodìa funebre di Liù. Non è stato un male: il duetto di Alfano non è un capolavoro musicale e il suo taglio ha risparmiato alla Guleghina (non in forma) note e difficoltà aggiuntive. Bisogna tener conto anche della inaugurazione di un nuovo sistema di amplificazione per nulla invasivo , che ha creato un buon equilibrio tra buca e palcoscenico, sfruttando le migliori doti dei cantanti e rispettandone le diverse potenzialità. Il Calaf di Marco Berti si impone sul resto del cast sia per la quantità sia per la qualità del suo canto: ho già apprezzato altre volte la classica bellezza del timbro all'italiana (rotondo, pieno, di nitida e scolpita dizione) e la facilità con cui la voce affronta una gamma di almeno due ottave piene (compreso il non facile do scoperto di “Ti voglio ardente d'amor” nel II atto). Questo notevolissimo cantante, ormai affermatosi in tutto il mondo, deve solo fare attenzione a non “pressare” gli acuti, a non gonfiarli oltre misura: di voce ne ha a venderne e non occorre volerne creare di più con spinte o forzature pericolose. In questo senso il famoso “Vincerò” c'è stato, ma affrontato con un po' troppa paura e tirato via senza quella libertà felice che rendeva memorabili le esecuzioni di Pavarotti (non tutte, ma moltissime). Cito Pavarotti perché Berti ha persino più volume del mitico collega e un colore che può avvicinarlo al grande Luciano. Maria Guleghina, si è detto, non è apparsa in buona forma e ha deluso come Principessa di gelo, probabilmente per stanchezza . In varie occasioni i suoi pianissimi sono sembrati privi del necessario appoggio e spesso di intonazione incerta, mentre non appena la voce (pur bella) cercava la sostanza si avvertiva una fastidiosa oscillazione. Brava invece Tamar Iveri come Liù, una voce di bel colore e un'artista espressiva, senza essere mai leziosa né incline ai facili effetti strappa-applauso. Morbido e nobile il canto del basso Carlo Cigni , preciso Antonello Ceron come Imperatore (senza la fastidiosa voce querula di molti interpreti fin troppo senescenti), ottimo il terzetto dei dignitari in cui spiccavano i tenori Casalin e Orsolini lasciando un po' in ombra il baritono (Ping), Filippo Bettoschi. Un plauso al maestro del Coro , Andreoli, e alla sua numerosa compagine che, prima della recita, hanno intonato l'Inno d'Italia per protestare contro il decreto Bondi sulla riforma delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Al termine della rappresentazione tutto il pubblico in piedi per salutare l'ingresso, commovente, di Franco Zeffirelli sulla sedia a rotelle, al centro della platea. Mi è subito venuto in mente il grande mentore, Luchino Visconti, anche lui indomito ma minato nel fisico, provando il Don Carlos (meraviglioso) all'Opera di Roma. Sono gli ultimi grandi miti di una forma di spettacolo mitica e grandiosa per sua stessa definizione, è giusta quindi la cornice di Verona, che ospita il più grande teatro all'aperto del mondo. |