Questa forma di teatro, il melodramma, l’Opera lirica, ha concluso il suo arco a metà del secolo scorso; è destinata a perdersi, è ormai un puro evento d’obbligo, ma di scarso significato. La musica invece è eterna, il teatro è eterno (di eternità per noi misurabili, che non valgono in aeternum). Ma anche nella musica per carnefici di lager c’è un soffio di eternità che vince il male; anche negli allestimenti di disperazione del Gulag c’è il soffio di eternità del teatro. Questo solo conta.
Il cartellone della Scala è, sia pure bellissimo, già un animale impagliato. Anche gli altri cartelloni... Che bisogno c’è di una stagione d’Opera al Regio di Torino? Di quelle voraci cavallette musicali dell’Arena di Verona? Non chiamiamo «cultura» un evento turistico estivo, costosamente mondano, con pizza finale di mezzanotte! La Fenice ha voluto morire, gioiello dell’epoca rivoluzionaria; ma era dal suo nome destinata a risorgere: potrà vivere di concerti. Si potrebbe lasciar vivere il Regio di Parma, dare una mano al festival rossiniano di Pesaro: Verdi e Rossini bastano, sono glorie, ricordi, e un Figaro qua e uno là fanno circensi di allegria.
Ma se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. Un altro teatro d’Opera restaurato, anzi rifatto con genialità ammirevole è il Carlo Felice di Genova, ma con spesa molto minore può ospitare qualsiasi altro degno spettacolo.
L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile.
Uno sprecasoldi di genio fu il più grande dei registi che lavorarono alla Scala. Non è nei miei ricordi, ero troppo giovane, ma credo alle testimonianze: una data memorabile fu quando Visconti, il 28 maggio 1955, creò con Maria Callas e Carlo Maria Giulini la sua versione della Traviata. Ce l’ho tuttora, per intero, nel vinile. La Callas fu la Voce dell’Opera della sua epoca, purtroppo obbligata allo stupro dell’imbecillità dei libretti, di cui non se ne salva uno solo. Per poter tollerare Traviata (che fin dal titolo contiene un’idiozia moralistica) bisogna non sapere nulla della trama, essere giapponesi o kazaki digiuni completamente di locuzioni italiane. Quello sciagurato Francesco Maria Piave! La stupidità concentrata nelle parole dell’Andante del vecchio Germont con l’esultante finale di Dio che esaudisce il suo voto di criminale ruffiano: è vero che la musica riscatta tutto, ma genialità e soldi per simili nefandezze fumettistiche sono ali imbrattate di petrolio.
Vixit, l’Opera, trionfalmente, nel secolo XIX; con Puccini e Boito, o Pizzetti, rantola; con Menotti è uno zombi. Bayreuth non avrebbe dovuto sopravvivere a Goebbels.
Nel XVIII l’Opera è puro svago, il suo passo è leggero. Ma l’Ottocento è sotto un segno progressivamente cupo, la moda è costrittiva e triste, il mistero musicale soccombe al tempo ed è inutile nascondercelo, il trionfo operistico è sempre più il dispiegarsi funesto del piacere per mezzo della sofferenza, richiama stuoli di sadomasochisti, le ideologie, l’antisemitismo, il marxismo, il wagnerismo, il freudismo, sono caserme in marcia. Nella Tetralogia non è tanto il Quattro a prevalere, ma la tetra-ggine che la ravvolge nel termine italiano. Quale cultura, se non necrofila, può rappresentare la ripresa, a costi vertiginosi, di una massiccia sequela di colpi in testa come La Valchiria? I capi nazisti, uno più sadomasochista dell’altro, celebravano con l’Opera wagneriana un culto di Kalì travestito da pellegrini cristiani e un Venerdì Santo delle regioni infere. Quell’immenso Incantesimo del Parsifal uccide letteralmente le nostre limitate capacità di liberare, di riscattare l’anima dalle sommersioni nella materia.
Il pubblico che va alla Scala la sera del 7 dicembre ad immobilizzarsi durante quattro o cinque ore, è impossibile immaginarlo spinto da motivi di elevazione spirituale (uso il vecchio termine del pensiero assassinato, col quale sguazzo meglio che se dico culturale). I motivi sono di vanità pura, esibizione di scollature e pettinature, significare presenza. E per questo i violini si agitano, le grandi bacchette sollevano ondate... Ma sulle facce la noia stampa, in un crescendo di afflizioni, le sue impronte d’irresistibile sbadiglio.
Tutto falso, tutto vento che ha fame.
Immancabili, sempre, le dimostrazioni politiche di chi viene apposta per lavorare all’esterno con le urla e i cartelli... Stavolta la materia infiammabile era desunta da disagi di congiuntura... o di università... ci sono poche varianti... ma la novità è stata l’assunzione da parte di un grande Direttore come Barenboim, prima dello spettacolo, della retorica piagnistea dei tagli alle sovvenzioni di Stato. Non mi pare sia stato di buon gusto recitare l’articolo Nove in presenza di Napolitano che la Carta la sa a memoria, più disposto dal suo palco ad applaudire la noia sgorgante dalla scena che a subire l’incongruità di un articolo che l’Italia aggira, frega, irride dal 1947.
Non è certo stato un gesto di cortesia, da parte del Maestro! E temo l’abbia fatto per fingere solidarietà con la piazza e di beccarsi così un’ovazione del tutto separata dai propri meriti di grande artista. Il pubblico pinguino e delle schiene nude sarebbe stato lui degno di applauso, se fosse rimasto in composto glaciale silenzio. Indigesta sempre è la verità.
È amaro pensarlo ma: se la Scala chiude, che male c’è?
COMMENTO DI ENRICO STINCHELLI:
Premesso che su moltissimi punti sono d'accordo con Guido Ceronetti : da una mente colta e raffinata ogni riflessione, sia pure provocatoria, dura e a tratti incomprensibile obbliga a meditare e a leggere con estrema attenzione.
Sono tanti gli spunti che offre questo sorprendente articolo, al di là delle semplicistiche condanne che un titolo totalmente inadeguato determinano in un lettore superficiale. Perché al termine dei suoi pensieri Ceronetti dice "è amaro pensarlo...." e quell'amarezza la stiamo condividendo tutti, amanti dell'Opera o detrattori della medesima.
Non è amaro constatare, anno dopo anno, un costante declino del "sistema-Opera" , fino agli eclatanti casi proposti dal Carlo Felice di Genova o dal Lirico di Cagliari, subissati da debiti e da bilanci disastrati, tali da portare alla bancarotta?
Non è amaro verificare che l'Opera in Italia non ha più una sua visibilità, essendo bandìta da ogni educazione domestica , da ogni palinsesto televisivo, da ogni realtà quotidiana?
Non è amaro lo spettacolo offerto da un teatro semivuoto con titoli popolarissimi, come Traviata, Tosca, Butterfly?
Ceronetti descrive in modo spietato ma elegante il felliniano declino dell'Opera, vista come una signora piena di rughe e malandata, impennacchiata con gli abiti dei tempi migliori, ma patetica nei suoi rituali stantii e superati. Se la prende con i libretti obsoleti e a volte improponibili, se la prende con il pubblico annoiato e sbadigliante, con gli spettacoli all'aperto dell'Arena di Verona e persino con i dopo-teatro a base di pizza, se la prende con Wagner e con il wagnerismo , evocando Goebbels e le marce naziste. Ceronetti non risparmia poi Barenboim e il suo discorsetto popolustico ante-Prima, biasimando la lettura dell'art.9 al Presidente Napolitano che , in effetti, quell'articolo dovrebbe conoscerlo a memoria. Qui , Ceronetti, mi trova totalmente d'accordo.
Insomma...perché Ceronetti scrive tutto ciò e cosa suggerisce?
Non credo che un uomo colto e sensibile possa auspicare la chiusura dei teatri soltanto perché l'Opera, in sé, sia morta, finita. Ceronetti sa benissimo che, per bella che sia, la musica operistica va ascoltata in teatro e non solo su un disco, per cui vive in funzione dei luoghi deputati alla sua esecuzione: con scene, costumi, luci, coreografie, regìe, voci e suoni dal vivo. Ceronetti sa anche che è uno spettacolo costoso, lussuoso, e mi stupisce che nella sua disamina non abbia minimamente menzionato gli allestimenti spaventosamente orrendi e costosi che troppo spesso, negli ultimi vent'anni, ci tocca sopportare e sovvenzionare.
Una cosa è evidente e la registro da attento cronista (forse il primo ad aver segnalato anni fa l'inizio di un processo declinante e sicuramente il primo ad aver denunciato apertamente il criminale gioco di malaffare intorno alla torta operistica): si parla sempre più spesso al negativo di questo nostro formidabile patrimonio.
Caro Ceronetti: io non so se Lei sa (suppongo di sì) che l'Italia all'estero viene venerata per la sua cucina, per le bellezze turistiche, per le città d'Arte, per la moda...ma soprattutto per l'Opera. Se si parla un pò italiano (lingua per il resto inutile) è grazie agli "orrendi" libretti d'Opera che Lei cita in modo sprezzante. E' poco? A me non sembra.
Se questo articolo può servire a destare qualche coscienza addormentata o anestetizzata...ben venga. Le provocazioni servono solo a questo.
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