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Sabato 15 Aprile 2023 07:27 |
La Lucia di Lammermoor presentata in Scala dal Maestro Chailly , sulla base dell’edizione critica approntata da Gabriele Dotto e Roger Parker, segna un punto di svolta molto importante nella lunga storia interpretativa di questo capolavoro. Ascoltando l’opera in diretta si è avuta netta la sensazione che ,per la prima volta, tutto scorresse come un fiume in piena, senza cedimenti e senza soprattutto quelle continue pause che troppo di frequente hanno trasformato l’opera in una sequenza di “numeri” da applaudire per forza di inerzia, con tagli micidiali e a volte -oso dire- criminali.
Cos’era la Lucia di Lammermoor prima dello scorso 13 aprile? Dobbiamo essere molto franchi e mettere da parte ogni residuo di vociomania : le Lucie tradizionali NON erano la Lucia di Donizetti ma una para esibizione canora , nel migliore dei casi l’attesa spasmodica della “pazzia” con la gara tra voce e flauto, nel peggiore dei casi un patchwork rattoppato alla meglio , così…tanto per dire che la si era eseguita. Intendiamoci: la Lucia “in pillole” l’abbiamo ascoltata con un Karajan paradisiaco assieme a Callas e Di Stefano, con Serafin e la Sutherland in stato di grazia, con Schippers e la inarrivabile coppia Sills-Bergonzi, con Kraus, Pavarotti, Abbado con la Scotto e con una infinità di gloriosi interpreti, ognuno per il suo verso storico. Il grande Gianni Raimondi , altro Edgardo di riferimento (splendido alla Scala con Abbado), ricordava in una intervista come il pubblico bolognese esplodeva in un irrefrenabile applauso quando Beniamino Gigli in Lucia attaccava all’unisono con il soprano “ Trucidatemi e pronubo al rito sia lo scempio d’un core tradito”. Altri tempi ,si dirà, tempi in cui il Divo assoluto era il cantante e poco importava se l’opera rappresentata era decurtata di intere pagine, tanto da stravolgere l’assetto generale dell’Autore e la sua visionarietà . Quasi sempre i grandi compositori sono profetici e tendono ad anticipare ciò che verrà dopo di loro: in questo Lucia non fa eccezione, essendo il classico capolavoro protoromantico, il punto di passaggio dal Belcanto puro al dramma tragico di Verdi, che -se posso azzardare- inventò il “Belcanto verista” (si pensi a Traviata, a Rigoletto, a Macbeth per arrivare a Otello).
Il maestro Chailly segue una linea molto precisa e coerente: in ogni opera da Lui diretta la volontà precisa è quella di presentare un lavoro fluido e teso drammaticamente, con una scrupolosa ricerca del dettaglio, dei colori e delle dinamiche, con l’abolizione dei tagli tradizionali. Questo tipo di impostazione è stato applicato alla Lucia come a Tosca, Andrea Chénier , indifferentemente: il rispetto assoluto delle volontà chiaramente espresse dagli Autori. Anche Riccardo Muti aveva avviato questo tipo di impostazione ma ,diversamente da Chailly , con l’abolizione degli acuti non scritti ,per una forma singolare di personale avversione alla puntatura. Qui entriamo in un campo minato , poiché il lavoro compiuto sulle edizioni critiche non contempla la cosiddetta “filologia della tradizione” , non essendovi documenti ufficiali e prove - dicono i revisori- di quanto gli Autori ammettessero e approvassero tali arbitri. Questo non è del tutto vero. Cadenze, acuti aggiunti , variazioni apposte dai cantanti non solo erano tollerate ma addirittura richieste . E’ nota e di pubblico dominio la lettera in cui Verdi chiese all’amico Donizetti di scrivere di proprio pugno le puntature per gli interpreti di Ernani a Vienna :
«Mi fu grata sorpresa leggere la di lei lettera scritta a Pedroni in cui gentilmente mi offre di assistere alle prove del mio Ernani. Non esito punto ad accettare la cortese offerta con la massima riconoscenza, certo che alle mie note non può derivarne che utile grande, dal momento che Donizetti degna di prendersene pensiero. Posso così sperare che sarà interpretato lo spirito musicale di quella composizione. Pregola volersi occupare sì della direzione generale, come delle puntature che potranno abbisognare, specialmente nella parte di Ferretti (il protagonista). A Lei, signor cavaliere, non farò complimenti. Ella è nel picciol numero degli uomini che hanno davvero ingegno e non abbisognano di una lode individuale. Il favore che Ella mi comparte è troppo distinto perché possa dubitare della mia gratitudine.”
Non solo: esistono svariate incisioni di cantanti tardo ottocenteschi, allievi e custodi delle tradizioni dei cantanti dei tempi di Donizetti. Sono esecuzioni stravaganti e risibili, siamo d’accordo, ma le cadenze di Marcella Sembrich, Emma Eames, Maria Galvany, Luisa Tetrazzini & C. testimoniano di tradizioni ben precise, la “filologia della tradizione” quindi esiste e andrebbe studiata a fondo, non liquidata con due battute come si legge nei preamboli delle varie edizioni critiche.
In sostanza il successo dell’opera dipendeva dalla bravura degli interpreti e contribuivano a ciò le puntature , cioè gli acuti aggiunti, e le cadenze , le variazioni, tutto ciò che potevi aggiungersi come atto “di bravura” al dettato del compositore. Lui consenziente. I punti di corona sulle pause orchestrali che precedono la fine di un’aria o la ripresa di una cabaletta, collocati ad hoc, sono la prova degli arbitrii consentiti dagli Autori e che gli interpreti sarebbero tenuti a rispettare. Non esiste nel Belcanto un da capo che non DEBBA essere variato: meglio tagliarlo se l’interprete non ce la fa.
Fa benissimo quindi il maestro Chailly a consentire le variazioni nel da capo della cabaletta di Lucia (“Quando rapito in estasi”) , il mi bemolle sopracuto al termine della scena della pazzia, o i si naturali inseriti dal tenore nella scena della torre, o il sol al termine della cabaletta d’entrata del baritono. E’ pura filologia della tradizione, quella che i revisori -gioco forza- non possono applicare. Nell’edizione scaligera di Lucia sono state però omesse delle note scritte: il mi bemolle sopracuto del duetto “Verranno a te sull’aure” , scritto per Duprez, è stato omesso da Florez e così l’”oppure” (in effetti facoltativo) dell’aria finale “Tu che a Dio” , che prevede un re bemolle sopracuto opzionale.Se non vado errato solo Franco Bonisolli e di recente Xavier Camarena hanno eseguito questa nota dal vivo.
C’è poi la questione delle tonalità….e qui il discorso si fa ancor più spinoso. Per la prima interprete , Fanny Tacchinardi, Donizetti compose la prima aria “Regnava nel silenzio” e successiva cabaletta rispettivamente in Mib maggiore e Lab maggiore, che invece vengono tradizionalmente trasportate mezzo tono sotto .Parimenti il duetto con Enrico , nell'autografo in è La maggiore, mentre di solito (quasi sempre) viene abbassato di un tono.Infine la "scena della pazzia" (tra l’altro rimpiazzata da una serie di cadenze con flauto solista) nell’autografo è in Fa maggiore mentre l’edizione Ricordi comunemente adottata abbassa al Mi bemolle maggiore. Cosa accade con i trasporti? Accade che la vocalità lunare, trascesa e angelicata di Lucia perde questi connotati e assume toni più lirici e scuri di colore, per consentire ai soprani di sfogarsi con do, re e mi bemolli sopracuti (quando riescono) invece dei perigliosi e quasi impossibili fa nella pazzia (la sola Mariella Devia osò alla Rai eseguire le tonalità originali e chiudere con il fa sopracuto (tra l’altro inserendo una nuova cadenza scritta da Franco Mannino). Diciamo , a onor del vero, che gli interpreti scaligeri di due giorni fa non sono riusciti a eseguire i sopracuti , eccezion fatta per il mi bemolle (comunque abbassato) con cui la Oropesa ha chiuso la scena della pazzia.
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Lunedì 13 Marzo 2023 11:05 |
Per celebrare i 100 anni dalla nascita di Franco Zeffirelli , uno dei più illustri uomini di Teatro mai esistiti, il Teatro dell’Opera di Roma decide di mettere nuovamente in scena “Pagliacci” di Leoncavallo , unica opera in cui il grande regista “attualizzò” la vicenda , trasponendo l’azione dalla Calabria fine Ottocento a una non meglio definita città del Sud Italia di oggi.
La scena si presenta come la facciata di una grande palazzina di periferia (non proprio un “basso napoletano” ma quasi) , con tante finestre e balconi in piena vista , rievocando un pò il celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile”. In quel cortile si vede e accade di tutto: una folla di figuranti che di volta in volta sono giocolieri, poliziotti, ragazzi del muretto, prostitute e prostituti, “femminielli”, popolani, insomma una folla felliniana adunatasi in questa pubblica piazza, in attesa che arrivi la roulotte di Canio.
Nella “commedia” che segue (dopo un ampio, assurdo intervallo che spezza lo spettacolo in due) su questa facciata calano dei pannelli raffiguranti tante sagome e faccioni di pagliaccio, a coprire il caseggiato e a circondare la scena vera e propria in cui si svolge la pantomima.
Non è , a mio avviso, la migliore versione zeffirelliana dei Pagliacci , assai meglio la produzione precedente con la sopraelevata o comunque gli spettacoli visti a Verona (per non dire del film, che resta insuperabile).
La celebrazione romana è stata affidata a uno staff capitanato da Stefano Trespidi, con i costumi di Raimonda Gaetani e le luci di Vinicio Cheli, che in qualche modo riprendevano lo spettacolo primigenio, rispettandone alcuni clichés ma non evitandone la confusione: troppo affollata e isterica l’apertura di sipario, con troppe “educande” (le voci bianche e la Scuola di Danza dell’Opera) in libera uscita e non ben coordinate tra loro, mescolate a un assembramento troppo eterogeneo, con la netta sensazione che fossero tutti lì adunati per far numero. L’abilità di Zeffirelli, pur nella quantità spropositata dei partecipanti , era quella di definire ognuno dei personaggi con delle precise azioni drammatiche, come avviene in un film: qui c’era solo un gran casino a cielo aperto.
A prescindere da ciò svariati errori: Silvio e Nedda che pomiciano in pubblica piazza, su un materasso posto all’uopo (?!) ,Canio che entra condotto da Tonio e all’inizio guarda all’indietro attendendo il punto musicale in cui li scopre…una ingenuità assoluta. Poi li vede (“AH!”) e invece di saltare addosso a Silvio, compie un ridicolo giro tra muretto e discesa, per consentire all’amante di scapparsene dietro le quinte (?!) , altra ingenuità. Nedda che lava il bambino con tutti i pantaloni addosso, nemmeno in India!? Senza spogliarlo del tutto, ma almeno fatelo accovacciare nella tinozza senza che si vedano quelle brache. L’uccisione di Silvio pessima, come spessissimo accade: con il baritono che attende, sereno, di essere accoltellato da Canio…e molte altre lepidezze che tolgono esattamente il verismo al Verismo.
Sul piano musicale Daniel Oren ha assicurato una direzione sapiente e molto solida, come Suo consueto, aiutando sia il magnifico Coro del Teatro dell’Opera (guidato da Ciro Visco) sia i solisti di Canto. Una prestazione di assoluta eccellenza.
Canio era il tenore americano Brian Jadge, voce sicura soprattutto nel registro alto, un pò avara di colori , penalizzata da una posizione acustica (soprattutto all’inizio) molto difficile.
Nedda il soprano Nino Machaidze, che abbiamo ritrovato un pò stanca vocalmente ma molto impegnata sotto il profilo scenico.
Trionfatore della serata il baritono mongolo Amartushvin Enkhbat, che merita qualche notazione a parte. I suoi pregi : una rara omogeneità dal basso all’acuto (poderosi il la bemolle e il sol del Prologo) e un giusto gioco di colori nell’arco di tutta la recita, ma se proprio si deve cercare il pelo nell’uovo un che di “bituminoso” nei centri , tale da rendere un pò difettosa la pronuncia. La voce è già scura di natura, perché scurirla di più?
Beppe , l’ottimo Matteo Falcier, gli interventi di Fabio Tinalli e Giuseppe Ruggiero.
Ho lasciato per ultimo Silvio che aveva , sì, la prestanza fisica tale da giustificare il tradimento di Nedda (anche se Canio, stavolta, non era da disprezzare) ma la cui vocalità presenta alcuni problemi da risolvere e non risultava all’altezza degli altri interpreti.
Grande successo per tutti, teatro gremito. Notizia last minute: termina l’Era Vlad, con le dimissioni due mesi prima della scadenza del mandato dello storico direttore artistico. |
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Mercoledì 01 Marzo 2023 19:20 |
Il “caso Venezi”: così si parla di Beatrice Venezi, musicista di professione, direttore d’orchestra e da poco istituzionalmente impegnata presso il Ministero della Cultura italiano come consigliere per la Musica, oggetto di una campagna diffamatoria senza precedenti dopo il cambio di marcia politico avvenuto a seguito delle elezioni dello scorso settembre. A scorrere molto velocemente la Rete, tra blogger assetati di sangue , Selvagge e selvaggine, assalitori, leoni e tigrotti da tastiera e più spesso da pastiera, oppositori e oliatori di professione o improvvisati, la Venezi è un bersaglio ideale soprattutto per il suo “outing” politico, fieramente e orgogliosamente schierato a Destra, cioè agli antipodi della tradizionale collocazione del mondo culturale.
Siamo in Italia e come ci ricordò Eugenio Scalfari, fino agli ultimi istanti della sua vita baluardo della Sinistra: “Si dice che sono stato fascista, monarchico, socialista, azionista, comunista, demitiano... Ed il bello è che è tutto vero.” Non c’è gioco più perverso e disgustoso che cercare di demolire il proprio avversario non contestando o anche contrastando le sue idee con le proprie, argomentandole, ma cercando di distruggerlo , gettando una cattiva luce su tutto ciò dove può essere attaccato. Leggendo i vari articoli al veleno pubblicati negli ultimi mesi, guarda caso dopo la nomina della Venezi a consigliere del Ministro, ravvisiamo ovunque quel maldestro e scoperto tentativo: parlar male di chi si è impegnato per migliorare sé stesso, senza preoccuparsi invece di migliorare sé stessi. Se poi è una donna, bella, giovane che ardisce salire su un podio per dirigere un’orchestra…apriti cielo: in barba alle quote rosa , alla parità dei sessi, alle cosiddette “pari opportunità” di cui si riempiono la bocca proprio gli avversari politici, la Venezi viene additata al pubblico ludibrio e accusata di tutto: presenzialismo televisivo , la partecipazione al Festival di Sanremo (Benigni sì…la Venezi no?) , la pubblicità a uno shampoo (fatemi capire: Woody Allen o George Clooney possono…la Venezi no? Pavarotti con il caffè….Domingo con la pasta sì..la Venezi no, verboten?), per arrivare al capolavoro finale, cercare di abbatterla come musicista e direttore d’orchestra, magari senza averla mai né ascoltata né vista. E su quest’ultimo aspetto che vorrei dire la mia, lasciando da parte le polemiche sterili di ordine politico (la Musica e l’Arte volano alto su ogni tessera di partito e su qualsiasi ideologia) .
Conobbi la Venezi a Torre del lago, io lavoravo alla regìa di Turandot di Puccini (nello splendido allestimento Frigerio / Squarciapino ), la Venezi debuttava nella difficile Turandot di Busoni, anche lì con un cast di giovani interpreti. Non era impresa facile: Busoni, eccelso pianista, fu un compositore brillante e dalla densa, a volte caleidoscopica orchestrazione, in cui la prevalenza del sinfonismo sulla consuetudine e le modalità della scrittura operistica vecchia maniera, rende la Turandot un intreccio assai fitto tra scherzo e dramma, come un gigantesco meccanismo a orologeria . La Venezi ne uscì benissimo, dimostrando tenuta ritmica, precisione e una dinamicità notevoli per una ragazza di appena 26 anni, riporto qui la recensione di Fabrizio Moschini su Operaclick (una delle rare firme “serie” che mi piace seguire nei suoi scritti) : “La bontà complessiva della produzione è però stata garantita dalla grazia con cui è stato confezionato l'allestimento, dall'affiatamento della compagnia, dalla preparazione del coro, destinatario di pagine importanti, ma soprattutto dalla precisione e pertinenza stilistica della bacchetta di Beatrice Venezi, vera sorpresa della serata. Lungi dal limitarsi a tenere timidamente assieme il tutto, la giovane e affascinante direttrice affronta questa Turandot con spavalda sicurezza, dosando per quanto possibile (ed adeguando all'acustica della sala) il turgore sonoro che la partitura prevede per l'orchestra, la quale da par suo risponde alle sollecitazioni del podio con una prestazione molto solida.”
Siamo nel 2016 , prima del “caso Venezi” e non posso che confermare le impressioni riportate dal recensore.
A Catania, in questi giorni, sta andando in scena una produzione di “Nozze di Figaro” di Mozart, un vero K2 esecutivo per chi conosce le diecimila trappole di questa straordinaria partitura. La Venezi è stata scritturata un anno e mezzo fa (quando la Meloni era ben lungi dall’assaporare le gioie del premierato, rinfreschiamo la memoria a qualche malpensante). Ho finito di ascoltare la registrazione della recita di ieri sera e , a parte qualche lieve inciampo assolutamente accettabile e comprensibile per uno spettacolo che non gode del mese di prove delle Fondazioni più ricche, ho potuto ritrovare tutte le caratteristiche che mi fecero apprezzare la Venezi a Torre del lago: nitore orchestrale, tempi brillanti e dinamica varia, ritmo serrato ma non isterico, tali da rappresentare la “folle journée” del trio Beaumarchais-Da Ponte-Mozart. I tagli del “capro e la capretta” e dell’aria di Don Basilio non inficiano assolutamente l’andamento generale: essi sono dovuti essenzialmente ai costi aggiuntivi cioè agli straordinari lavorativi che avrebbero fatto saltare il budget del Bellini, che è un teatro di tradizione. I finali d’atto, soprattutto secondo e ultimo, sono risolti con grande perizia e seguendo i suggerimenti della drammaturgia, le voci non vengono mai sovrastate e gli interventi dei fiati e dei legni dell’Orchestra del Teatro Bellini (ottima in tutte le sue sezioni e va detto a chiare lettere) hanno dei momenti di grande virtuosisimo e di raro affiatamento. Si vede che hanno lavorato bene con il loro direttore d’orchestra, altrimenti il risultato sarebbe stato ben diverso. Le voci sono molto interessanti: Desirée Rancatore debutta come Contessa e , come si suol dire “la classe non è acqua” , le arie e i suoi interventi dimostrano il livello interpretativo raggiunto sia in termini di presenza vocale che di fraseggio, stilisticamente impeccabile; il basso Gabriele Sagona è un Figaro elegante e raffinato, di bel timbro e di tecnica controllata; Luca Bruno un Conte autorevole e spigliato nei recitativi; Cristin Arsenova una Susanna nitida e musicalissima; Sabrina Messina un Cherubino dal bellissimo timbro e molto presente (la cosiddetta “voce teatrale”, che passa l’orchestra) ; Luciano Leoni un Don Bartolo protervo e autorevole; Federica Giansanti come Marcellina, Saverio Pugliese nella parte di Don Basilio (senza l’aria come abbiamo detto), completavano il cast Pietro Picone (Don Curzio) , Federica Foresta (Barbarina) e Alessandro Busi come Antonio. Undici recite tutte esaurite e quattro recite speciali per i bambini, illustrate da un attore, anch’esse a teatro pieno. Il direttore artistico, M.° Fabrizio Maria Carminati, è giustamente soddisfatto . Gli ho chiesto un parere (visto che è un bravissimo direttore d’orchestra, scuola Gavazzeni) sulla giovane collega, mi ha detto: “ E’ preparata, seria, in una parola : brava. Ha saputo lavorare bene con i professori di Catania, creando un clima molto collaborativo e disteso. Sono intenzionato a proporLe una nuova scrittura .”
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Giovedì 18 Agosto 2022 12:08 |
Alcuni recenti fatti di cronaca, riferiti ad antiche questioni più volte esaminate e su cui ora non torno (chi vuole sa come e dove informarsi) mi spingono a fare una piccola analisi sul mondo dell’Opera e della Musica in generale. Analisi e considerazioni che Vi sottopongo così, come lettura curiosa, di costume se volete, con un fondo di amara constatazione di fatti.
Le biografie dei grandi Artisti, degli Autori, dei musicisti in particolare sono sempre state allucinanti e in forte contrasto con il loro mito. Esiste una nettissima linea di demarcazione che separa l’aspetto umano, cioè il comportamento verso gli altri , il rapporto con la famiglia, dalla parte eminentemente artistica. Non so esattamente per quale ragione si possa creare questa “dicotomia” negli artisti ma se restando in campo musicale pensiamo alle vite di Beethoven, Schubert, Mozart per arrivare a Verdi, Puccini e cominciamo poi a includere celebri direttori d’orchestra, cantanti , registi …assistiamo a casi che possono essere facilmente riassunti e perfettamente rappresentati dal protagonista del racconto di R.L.Stevenson “Lo strano del dott. Jekill e di Mr. Hyde”.
Intendiamoci: Autori geniali, Artisti idolatrati e bravissimi nella loro attività , oggetto di culto per il cosiddetto “melomane” che tende a collocarli su un piedistallo indiscutibile e inviolabile, direi proprio “impermeabile” a qualsiasi vicenda che esuli dalla mera prestazione artistica. Chi oserebbe mettere in discussione Schubert solo perché era solito frequentare prostitute? Ridicolo. Si sorride alla buffa e perversa immagine che esce fuori dall’Amadeus di Forman e ci si commuove alle prime battute dell’andante del Concerto n.21 in do maggiore di Mozart; si piange per il finale della Bohème di Puccini e si dimentica, ovviamente, la sua disinvolta biografia .
Se poi andiamo a sfrugugliare nel gossip dei cantanti…apriti Cielo!…non se ne salva uno. Nella mia lunga esperienza di conoscenza diretta di tanti e tanti artisti del mondo operistico, ne ho conosciuti pochissimi la cui vita privata corrispondesse esattamente all’immagine che dava l’Artista , attraverso le prodezze della sua Arte. Le delusioni umane sono state tante. Mi sono chiesto il perché e mi sono dato delle risposte.
Intanto l’Artista ha una vita sbalestrata e folle, stravagante, fuori dai normali ritmi di persone comuni. Vive oltre metà dell’anno fuori di casa propria, la famiglia (se c’è) lo vede lontano e assente quasi continuamente, per intere stagioni. Nell’Artista subentra quasi sempre una vera e propria idiosincrasia nello “stare in casa” (nonostante ostenti sentimenti nostalgici e si lamenti per la continua lontananza dalla moglie o dai figli) : quando si ritrova tra colleghi la frase canonica è “ tra una settimana devo essere lì a cantare Aida , poi dall’altra parte a fare Carmen” , e lo dice con una singolare ansia perversa, come se il non stare “lì” o “là” sia un disonore, una sconfitta professionale e umana. Piano piano si genera la figura dell’Artista-trottola , una sorta di Tartarin di Tarascona con la valigia sempre in mano, il Re degli Aeroporti che al posto dell’agenda ha una fisarmonica costellata di date occupate, di “periodi” intasati di impegni, peggio d’un magnate della Finanza o di un Presidente del Consiglio. La lamentela è continua, come si è detto, e fa parte del gioco : tutta finzione, non è vero per niente. Se può dall’Alaska vola dritto dritto in Sudamerica e poi in Asia, con salti e spostamenti che talvolta hanno del prodigioso.
Veniamo poi al tema scottante e pruriginoso dei rapporti sentimentali , poiché come si sa la famiglia non basta e ,come diceva Marjorie Pay Hinckley , “ La famiglia è il posto dove sei amato di più e dove ti comporti peggio.”
Il Teatro si determina come un mondo parallelo in cui, tutt’a un tratto, si viene proiettati e si viene circondati da schiere di donne bellissime e sorridenti, ballerine/i cantanti artiste/i del Coro comparse, spesso semisvestite/i , apparentemente allegre/i e spensierate/i….come una grande famiglia in cui ci si dà del Tu fin dal primo istante in cui ci si vede. Me lo spiegò benissimo alcuni anni fa un vecchio “lupo di mare” come Mario Dradi, che ne sa una più del Diavolo: “ Ma ti rendi conto? Vieni da fuori, di colpo sei in mezzo a una legione di belle donne…non capisci più niente!!”. Nella mia esperienza di regista ne ho viste finora di tutti i colori. A Siracusa, durante le prove della Turandot, c’era un gruppo di bellissime e bravissime ballerine che avevano cambi veloci di costume tra una scena e l’altra, i camerini erano molto distanti dal palco e quindi , noncuranti di chiunque, si cambiavano dietro al palco stesso . Vedo da lontano un assembramento sospetto, mi avvicino: le ballerine totalmente nude, si stavano cambiando, il Mandarino e l’Imperatore soprattutto stavano impalati a guardare , peggio d’un voyeur del Gianicolo, con due occhi sgranati a mo’ di padella. Un tripudio di culi, tette al vento altre amene visioni , che ho dovuto pietosamente celare allontanando d’imperio i guardoni, ormai afoni.
Ovviamente non voglio essere frainteso , non sto lanciando accuse verso le ballerine/i né giustificando i “provoloni” o , peggio, chi rientra nella cronaca nera: sto solo fotografando alcune situazioni, l’ambiente del dietro le quinte. Per chi di colpo si ritrova in questo ambiente, in cui si è amici dopo mezzo secondo solo per il fatto di essere lì, in quel momento, la cosa può determinare reazioni estreme , fissazioni, manìe, smanie implacabili e irrefrenabili. Si perde la testa. Non tutti sanno mantenere quell’ “equilibrio PSICO-fisico” di cui parlava la grandissima Antonietta Stella. Per questo leggiamo notizie pazzesche, per questo affiorano strani “casi” come quello del dottor Jekyll.
Il pericolo maggiore lo corrono quelle personalità (fondamentalmente insicure) che iniziano a credersi Dio, solo perché hanno l’agenda che trabocca di scritture, i cosiddetti “potenti”. Si credono di disporre di chiunque e di poter “giocare” con chiunque restando impuniti e con strafottenza insistono, giungendo a manipolare e a illudere. Pessimo esempio per le nuove generazioni. Nella Musica , nell’Arte nessuno è Dio. Disse bene un regista mio amico, napoletano: “in questo mestiere, in questo ambiente sei Dio all’inizio, sei ‘na mmerda subito dopo, appena volti le spalle”. Diciamo che il tragitto che separa Dio da una cacca può essere comunque costellato di successi , di trionfi anche…ma tutto è effimero, non bisognerebbe mai dimenticarlo .Lo scopo dell’Arte è di immortalare l’effimero ma non bisogna confondere l’Arte con la propria esistenza, il divario tra l’Artista e l’Uomo dovrebbe essere meno ampio, meno dicotomico. Speranza vana? Illusione? Esistono anche esempi contrari e non così negativi, quelli sono i “fari” la cui luce illumina assai meglio di tante effimere lucciole definite “Stars”.
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