Ci sono alcune opere particolarmente ostiche ,più di altre, per cantanti direttore e regista.
Una di queste è Sonnambula di Bellini, un’opera in cui di fatto non succede nulla dall’inizio
alla fine: un matrimonio programmato, una ragazza afflitta dal Sonnambulismo penetra nella
stanza del Conte e ciò determina un equivoco che, oggi muoverebbe al riso, mentre un
tempo poteva addirittura inficiare gli sponsali. La musica è un meraviglioso ricamo ordito
con raffinatezza e sapienza belcantistica, con parti micidiali per il tenore e per il soprano se
eseguita integralmente. Fino a pochissimo tempo fa la Sonnambula veniva falcidiata senza
pietà, tagli su tagli, tali da rendere irriconoscibile la stesura originale. Esistono registrazioni
dal vivo e in studio che ne fanno fede e che gridano vendetta, nonostante la presenza di
sublimi interpreti.
La Sonnambula è un coacervo di equivoci, vocali e interpretativi. Partiamo dal tenore, la cui
parte venne scritta per Rubini , un divo del primo Ottocento che possedeva un estesissimo
registro sopracuto in virtù d’una particolare emissione, di petto fino al sol e poi di testa dal
sol all’ottava superiore. In una replica a Venezia fu proprio Rubini a eseguire in cadenza un
sol sopracuto,la nota più acuta mai emessa da un tenore. Immaginatevi dunque come
possono ritrovarsi i tenori moderni, che non usano questi registri allo stesso modo e
cantano letteralmente in maniera diversa.
Da qui nacque l’equivoco più grande: Elvino in Sonnambula come tenore leggero, in
sostanza dei tenorini chiari ,paradossalmente molto meno estesi dell’originale. Ci vollero
Pavarotti (ma per una sola recita) e soprattutto Kraus,Gedda,Kunde,Luca Canonici e Juan
Diego Florez a rimettere un pò a posto le cose, ma spesso con trasporti e tagli salvifici.
Il secondo equivoco riguarda Amina, scritta per Giuditta Pasta che appena sei mesi dopo
Sonnambula fu Norma. Per essere una grande Amina bisognerebbe cantarla pensando a
Norma e viceversa.Invece la Storia dell’Interpretazione ha visto spesso Norme come navi
da guerra e Amine diafane ed evanescenti, l’esatto contrario con l’effetto di veder crollare le
portaerei sulla cabaletta “Ah bello a me ritorna” e naufragare le Amine leggerissime già sulla
prima aria o nei duetti col tenore, in cui la tessitura è bassa.
Per il regista Sonnambula è un dramma, non sa proprio che pesci pigliare.Visconti concepì
genialmente Sonnambula come un grande ballo, ispirandosi alla Taglioni per il personaggio
che fu della Callas. La maggior parte delle classiche Sonnambule anni 40\70 sono state
delle rivisitazioni tirolesi stile Elisir d’amore: contadinotte, grembiulini, fiori, carretti, mulini
.Vi sono immagini della Scotto e della Sutherland che fanno davvero impressione. Pupi
Avati, nel suo unicum operistico, pensò a un racconto gotico, schiaffando tutti all’interno di
una Cattedrale ,il tutto estremamente macabro.Barberio Corsetti in questa recita romana ha
preferito invece creare una grande stanza dei giochi, dove Amina è una bambinona
cresciuta e il mobilio ora gigantesco ora minuto, a seconda delle scene, con tanto di
pupazzi e orsacchiotti che vengono strapazzati un pò da tutti i personaggi. Uno spettacolo
che non è piaciuto al pubblico e che è stato duramente contestato alla fine.
Jessica Pratt è una intensa e straordinaria Amina nei passi cantabili, bravissima nel legare i
suoni e nell’eseguire i passaggi melismatici a mezza voce , con un timbro che proprio nei
pianissimi è cristallino. Non è una voce grande, nel senso teatrale del termine e paga il
pegno di un registro grave non certo sonoro come molti passaggi imporrebbero, però è
sempre precisa e partecipe, fino a un magistrale “Ah non credea mirarti” ,sicuramente l’asso
nella manica.
Francisco Gatell è in perfetta sintonia con la Pratt: voce gradevole, non grande, sulla linea
Alva-Florez ma senza l’estensione di quest’ultimo, tant’è che nel primo atto vi sono stati due
incidenti di percorso proprio nel registro acuto. Poi si è ripreso ed è risultato convincente nei
duetti e nei concertati, superando anche la terribile scena del II atto presentata senza tagli.
In scena Gatell è un attore brillante e dinamico, anche se la regìa a tratti lo faceva sembrare
un pò troppo fessacchiotto.
Molto bravo il Conte Rodolfo di Riccardo Zanellato, sempre misurato e morbido nel canto .
Da sottolineare la buona prova di Lisa, il soprano Valentina Varriale e di Teresa, che è stata
Reut Ventorero, entrambe sortite dalla Fabbrica dell’Opera di Roma.
Dulcis in fundo il maestro concertatore, Speranza Scappucci cui era demandato il compito,
arduo, di dirigere l’orchestra, il Coro e i solisti di questa produzione. La resa complessiva è
stata decisamente alterna: una brillantezza di fondo che ha positivamente dato una sferzata
a molti passaggi che in quest’opera rischiano di appesantirsi o ,peggio ancora, di
ammosciarsi ma a volte improvvise lentezze e un compiacersi dell’arcata melodica
belliniana che ha prodotto l’effetto opposto. Intendiamoci: noia vera e propria non v’è stata e
la partitura era integrale (fatto da sottolineare positivamente) ma ogni tanto la macchina
sembrava arrestarsi a discapito di una visione più coerente, certamente da acquisire man
mano che le recite andranno avanti. La Scappucci possiede un gesto sicuro ma ampio,
largo a volte , e questo rischia di tradursi in lentezza. Insomma: il rischio vero in Bellini è
quello di restare ipnotizzati dalla melodia infinita e di uscire da una dimensione ritmica più
controllata e meno dispersiva, laddove il sogno diventa languore…che è altra cosa.Una
dote da porre in rilevo è l’attenzione spasmodica per il Canto , in questo la Scappucci
mostra già un solidissimo mestiere e per questo merita il nostro personale plauso.
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