Trovatore infelice all'Opera di Roma
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Mercoledì 01 Marzo 2017 08:56

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La  trilogia  popolare all'Opera di Roma  non decolla , dopo un Rigoletto poco fascinoso  ecco  Trovatore con tutto il suo carico di problemi, a  partire dalla concertazione  molto farraginosa  e discontinua di Jader Bignamini, un giovane  talento direttoriale cui necessita  più  esperienza.

Lo stacco dei  tempi  è  sulla  solita  linea alla bersagliera, che  sta  diventando  un noioso refrain  per  tanti spettacoli , equivocando la brillantezza  con la  rapidità fine  a  sé stessa. Verdi  è  un autore  NOBILE  e  cercare di risolvere tutto con tarantelle  e  marcette  vuol  dire svilirlo. Il protagonista  in buca  è  stato l'ottavino: i suoi  trilli  e  i suoi sopracuti  fendevano la  sala  con strafottenza, a  volte  fastidiosissima....non può  essere. Trovatore  ha  un colore plumbeo, una densità di suono  che  non abbiamo minimamente avvertito  e  che  il maestro Bignamini dovrà  considerare  in futuro. Inoltre, più  grave  ancora,  è  stata  la mancanza di molti  respiri che  ha  nuociuto non poco alla resa  vocale  degli interpreti, tra  l'altro non tutti in parte.

Il protagonista  debuttava, Stefano  Secco, un tenore votato dalla natura  a  un repertorio decisamente  diverso: la  voce  è  leggera, chiara  nel  timbro  e cercare di  gonfiarla   artatamente non produce  che  acuti stretti  e  persino  più  piccoli  di  quelli che  in realtà  Secco avrebbe  o  aveva   quando cantava molto bene Rigoletto  e  opere  più appropriate.Male la  Pira, con un do  finale strimizito  e  indietro, brutte le  smorzature  in Ah  sì  ben  mio, debole  il  Terzetto, deboli i  pianissimi del  duetto con la  madre  nel  IV  atto, che pareva  accennato.

Meglio  la  Azucena  della  Ekaterina  Sementchuk, anche  se  cantata  in ostrogoto: StrUde la  vOmpa, il fOglio mUo...non si possono sentire  a   questi livelli. Buono il suo registro acuto  con si bemolli e  do  molto sicuri  e  liberi, ipotizzo che  in origine  fosse  un soprano camuffato da  mezzo. Comunque  una  solida  artista.

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Simone Piazzola  ha  cesellato una  bellissima  aria  come  Conte di Luna, con i colori  giusti  e  solo  qualche lieve  fissità  negli acuti che a  mio parere  andrebbe  controllata. Il suo personaggio mi è  sembrato  molto ben  centrato anche scenicamente, peccato solo  che  l'orchestra  lo abbia  coperto  più  volte nel  quarto atto con clangori  inadeguati.

Male  la  Tatjana  Serjan, dal registro acuto a piena  voce  ormai compromesso: un timbro di natura  non bello  ma  sorretto  da  una  buona  tecnica  e da  un ottimo  uso dei pianissimi, ma  ciò non può  bastare e difatti la prima aria con cabaletta sono state terribili, così come altri momenti dell'opera, con la voce si sbracava in suoni aperti e gutturali. Brutto anche il personaggio, a metà strada tra una stracciona e una Anita Garibaldi esagitata.

Male il basso Cigni come Ferrando e la debolissima Ines.

Lo spettacolo della Fura dels Baus presentava qualche spunto molto interessante ma meno di quanto ci si potesse attendere: un saliscendi di pilastri, luci ben studiate ma tendenzialmente macabre, i soliti soldati di una guerra civile qualsiasi, i cappottoni, le Sturmtruppen, cose purtroppo viste e riviste in tanti titoli diversi.

Alla fine contestazioni classiche per la regìa (il che vorrebbe dire successo) , un po' per il tenore, successo pieno per Simone Piazzola e per Azucena. Molta noia in generale. D a registrarsi l'urlo “Caterina!” dopo Stride la vampa, un fan della Sementchuk che fece lo stesso durante l'Aida diretta da Pappano a Santa Cecilia...una nemesi.

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Rigoletto disordinato all'Opera di Roma
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Lunedì 05 Dicembre 2016 22:22

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Uno strano Rigoletto quello allestito all'Opera di Roma in questi giorni, purtroppo allineato a tanti spettacoli complementari e omologhi: l'azione si sposta ai nostri giorni, in un non meglio identificato “Palazzo del Duca” , una serie di tende che salgono e scendono dando l'impressione dei fatidici quattro stracci appesi, poche suppellettili, brutte luci che tengono quasi sempre in penombra o al buio i protagonisti. Poco. Troppo poco per un'opera così forte, così amata, così complessa e così bella. La Bellezza è oggettiva così come la Bruttezza: questo Rigoletto con la regìa di Leo Muscato, le scene di Federica Parolini e i costumi di Silvia Aymonino è decisamente e irrimediabilmente brutto. Come si può presentare Maddalena nell'ultimo atto con una coroncina in testa tipo Regina della Notte e una mise completamente priva di qualsiasi sensualità? Rigoletto con una finta gobba a vista, sempre dritto in piedi e di tanto in tanto colto da ballo di San Vito? Gilda che si confonde con Giovanna? I cortigiani che da cinici e sprezzanti esecutori degli ordini ducali si trasformano in ilari clowns?

Dov'è la fosca tragedia? Dov'è l'orrore e il dramma se si finisce in più punti per ridere?

Le cose non migliorano con la direzione d'orchestra del maestro Michele Gamba che lodevolmente si impegna a mantenere un ritmo stringato e incalzante ma in un perenne mezzoforte , a tratti così forte da coprire le voci di alcuni interpreti (vedi per esempio il pur bravo basso Dario Russo e la Maddalena di Erika Beretti, sommersi dai flutti sonori del terzetto nella Tempesta). Un altro rimprovero è ancor più grave, quello di non aver imposto una linea comune a tutti gli interpreti in merito alla ormai annosa (e noiosa) questione del Rigoletto “filologico” approntato dall'edizione critica a firma Martin Chusid. Che senso ha ascoltare la versione fedele all'originale eseguita dal baritono, Luca Salsi, quando gli altri fanno -come si dice a Roma- “il cavolo del comodo loro” , con tutti gli acuti di tradizione, le cadenze, le puntature e i tagli? Una gran confusione e basta.

Ho voluto approfondire la scelta filologica con il protagonista, Luca Salsi, in una conversazione in cui mi sono state spiegate le scelte adottate:-” Non ho paura degli acuti, la parte ne prevede tanti da non doverne aggiungere. E' una mia scelta perchè sento che il personaggio non debba abbandonarsi a inutili sparate per strappare un applauso in più . E' un ruolo che adoro ma che, confesso, mi pesa molto: da quando entri stai sempre in scena, impegnato su tessiture impervie, che chiedono tantissimo vocalmente e psicologicamente. Io sul palcoscenico voglio divertirmi, non voglio soffrire per un ruolo che non sento adatto a me, per cui dopo un'ultima produzione ad Amsterdam, cui tengo molto, lo metterò da parte. Mi dedicherò a tanti altri ruoli che sento più miei come Macbeth, Simon Boccanegra, Gérmont, Foscari, debutterò Gérard in Andrea Chénier, Amonasro con il maestro Muti a Salisburgo...”.

Coerente con quanto dichiarato, Salsi ha interpretato un Rigoletto molto sofferto, interiorizzato, con un canto morbido e incline alla mezzavoce accorata, ma pronto a scattare in un impetuoso “Cortigiani vil razza dannata” e in un finale davvero coinvolgente.

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Il tenore Ivan Magrì , chiamato a sostituire il collega Pretti influenzato, è un Duca sicuro e di buona resa, se non fosse per uno strano effetto “a risucchio” che inficia la sua gamma acuta: sonori e schietti i centri, poi dopo il passaggio la voce viene proiettata all'indietro perdendo di efficacia. Peccato, perchè le carte ci sono tutte per superare una parte tra le più impegnative del repertorio verdiano.

Buona la prestazione del soprano Lisette Oropesa, che nonostante una voce non grande e con un po' di vibratino, ha saputo conquistare tutti con una linea molto corretta e un bel gioco di colori, sicurezza nei sopracuti e nei diminuendi in zona alta che le hanno valso grandi applausi alla fine.

Bravo il basso Dario Russo, nonostante la regìa gli togliesse molta di quella terribilità che caratterizza gli Sparafucile di vaglio, mentre molto modesta la prova di Erika Beretti, che mi è parsa più un soprano corto che un vero contralto, penalizzata da un costume francamente inadatto.

Degli altri è degno di menzione per la sua straordinaria prestazione il Conte di Monterone di Fabrizio Beggi, voce che spiccava su tutti per squillo e autorità d'accento.

Lodevole l'iniziativa di utilizzare i ragazzi della Fabbrica dell'Opera per i ruoli minori.

Molto bene il Coro , forse un po' troppo numeroso, e l'Orchestra, soprattutto per gli assoli degli strumentini e degli ottoni, sempre molto precisi.

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Intervista con Zubin Mehta: Verdi, Falstaff e le regìe moderne...
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Giovedì 17 Novembre 2016 23:35
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Superata la soglia degli 80 anni, portati splendidamente grazie a una inesauribile verve da ragazzino, Zubin Mehta è uno dei massimi direttori d’orchestra di ogni epoca. Con la Sua attività multiforme e distribuita in ogni parte del mondo a ritmi impressionanti ha partecipato a eventi di portata mondiale , avendo al Suo fianco i più grandi interpreti non soltanto canori : valga per tutti quell’infuocato concerto che lo vedeva dirigere il leggendario Horowitz nel Terzo Concerto di Rachmaninoff, una delle vette della Storia dell’interpretazione musicale. La discografia è sterminata e conta alcune incisioni considerate di assoluto riferimento per ogni appassionato: anche qui mi limito a citare la Turandot con il trio Sutherland, Pavarotti, Caballé , l’Aida con Corelli e la Nilsson, il Trovatore con Domingo, Milnes e la Price, senza dimenticare taluni megaeventi di risonanza planetaria. Adorato da musicisti, orchestre e pubblico di ogni parte del globo, richiestissimo tanto da non avere mai un attimo di sosta, oggi Mehta è nell’amata città di Vienna, preparando un nuovo Falstaff di Verdi, titolo con il quale tornerà alla Scala .

-Maestro, come sta?
-”Bene grazie,sto lavorando molto qui a Vienna ,con David Mc Vicar:una produzione quattrocentesca con qualche escursione...beh,la quercia non è del tutto romantica,ma i cantanti sono davvero fantastici: a partire da Ambrogio Maestri, che è il miglior Falstaff, poi c’è Carmen Giannattasio come Alice, Meg è norvegese,Nannetta è israeliana..una compagnia che funziona bene,con la filarmonica di Vienna in buca vuol dire già partire vincenti...”
- Parliamo di regìe. Il grande tema attuale è quello che divide il mondo degli appassionati d’Opera in due: tradizionalisti e modernisti. Lei come si schiera?
- “Guardi io ho fatto vari Falstaff moderni e quando il regista ha immaginazione, tutto funziona bene. Però voglio dirLe che quando mi sono incontrato con MacVicar,gli ho detto :”Guarda, potrebbe essere il mio ultimo Falstaff,fammi un favore, ambientalo nel 400... “-
- Lei come vede Falstaff? E’ un’opera crepuscolare, tragica ma al tempo stesso c’è una forte componente comica che muove tutto il prezioso meccanismo verdiano.
-”Non direi esattamente comica.Per dirigere Falstaff bisogna conoscere a fondo tutti gli stilemi verdiani.Io ho avuto modo di dirigere Rigoletto Traviata Forza del destino,Aida Otello giungendo DOPO al Falstaff. E’ stato un percorso necessario e importante per me, solo così sono riuscito a capire e a “sentire” tutto il lavoro compiuto da Verdi. Comunque è vero quello che Lei dice: è anche un’opera crepuscolare, tragica, molto tragica. Falstaff non è divertente...c'è molto dell’Enrico IV e dell’Enrico V di Shakespeare naturalmente ,ma quando arriviamo a Verdi e Boito troviamo un poveraccio, una figura tragica.”
- Lei pensa sia necessario un baritono italiano per questa parte? C’è molta “italianità” nel personaggio.
-” Quello che dice è vero,l'italianità conta molto...ma per esempio il baritono Bryn Terfel canta un italiano perfetto, nessuno si accorge che non è italiano. A parte lui, però, con molti stranieri io sogno di avere un italiano...” -
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-Lei ha una lunga gloriosa carriera alle spalle. Ha avuto la possibilità di lavorare con cantanti eccezionali, voci mitiche: penso alle Aide con Corelli e la Nilsson, la Price, le Turandot con Caballé, Pavarotti, la lista è infinita. Come vede il passaggio da quelle vocalità alle voci attuali? Lei è d’accordo sulla tesi di molti appassionati che giudicano inferiori i cantanti attuali rispetto a quelli del “buon tempo che fu”?-
-” No. Direi anzi che oggi i cantanti sono più educati musicalmente, più preparati.Ovviamente all’epoca c'erano eccezioni, ma in Italia particolarmente i cantanti attuali sono molto più educati ed è più facile lavorare con loro..le voci possono piacere o meno, questo è chiaro.Il tenore Fabio Sartori, per esempio, è un grande tenore italiano,il baritono Ambrogio Maestri... nessuno è meglio di lui.”
-Cosa ne pensa dei direttori d’orchestra che corrono. Oggi assistiamo a tante recite, ma anche concerti, all’insegna della corsa sfrenata, qual è il Suo parere a riguardo? -
-” Eh eh...(ridacchia)... ora non posso fare nomi ma posso dirle che molte volte esco dalle sale da concerto che sono non soltanto in disaccordo....ma proprio arrabbiato...mi interesserebbe sapere dal collega quale pensiero ha avuto per dirigere in quel modo....ci sono alcuni che proprio rovinano la musica ...”-
-Colpa di Toscanini? Taluni magari pensano che velocità vuol dire bellezza, bravura?-
-” Non penso proprio alla velocità come fattore di bellezza...vede,quando abbiamo un tempo veloce noi dobbiamo comunque sentire tutte le note,se no è un casino!....La fuga del Falstaff, ad esempio, non può essere troppo svelta...” -
-La sua ultima Aida incisa in studio, con Bocelli, la Lewis e i complessi del Maggio Musicale Fiorentino , è molto solenne nobile, con un taglio aristocratico,non frenetico ...-
-”Devo dire che ho lavorato molto bene con il mio amico Bocelli,c'è un grande vantaggio dato dalla sua musicalità,la Lewis anche..è fantastica,mi sono trovato molto bene con lei. Avevo anche l'orchestra di Firenze,che oggi è una delle più grandi orchestre europee.” -
-I prossimi impegni italiani?-
“Ho un contratto con la Scala per i prossimi tre anni,farò a maggio il mio ultimo Maggio Fiorentino con Don Carlo.Come vede non lascio l'Italia.”
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L'Aida con Bocelli , sì o no?
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Domenica 25 Settembre 2016 15:50

 

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Ci risiamo. A pochi giorni dall’”evento” a Napoli che ha scatenato la discussione sul tenore Jonas Kaufmann, apparso in non felici condizioni vocali, eccoci qui a commentare e ad analizzare in breve un altro caso speciale: l’Aida di Verdi in una nuova edizione discografica che vede protagonisti i complessi del Maggio Musicale Fiorentino con Zubin Mehta sul podio, Kristin Lewis (Aida), Veronica Simeoni (Amneris), Carlo Colombara (Ramfis), Ambrogio Maestri (Amonasro), Giorgio Giuseppini (il Re), Maria Katzarawa (una Sacerdotessa) e Juan de Léon (il Messaggero), ma soprattutto Lui...il tanto discusso Andrea Bocelli. Già leggo nei pensieri dei melomani “talebani” , gli irriducibili: “ma per carità! Canti le canzonette!” , “Non è un tenore!”, “ Ha avuto successo per il suo handicap...”....e altre cose che pur abbiamo letto e ascoltato con le nostre orecchie, decine di volte. Cattiverie? Malignità? Come le vogliamo classificare siffatte affermazioni? Il mondo dell’Opera e direi la Storia dell’Opera sono costellati di casi del genere: Maria Callas, oggi definita “Divina” da tutti (o quasi) conservava gelosamente le lettere di insulti ricevute nel corso della sua carriera. Le pubblicò Renzo Allegri in un suo libro: erano insulti abbastanza ripugnanti, ora sull’aspetto fisico ora sulla voce . Tipico. Si diventa divini dopo la morte, in ogni caso.
Andrea Bocelli non ha avuto successo per il suo handicap ma per la tenacia con cui ha perseguito la sua passione musicale, a prescindere dall’handicap. Mi azzardo a dire che è assai meno handicappato di molti suoi colleghi, per essere più chiari: ho conosciuto tenori assai meno agili in scena, assai meno musicali, assai meno pervasi da quel “fuoco sacro” senza il quale, mi dispiace, sei un impiegato del mondo dello spettacolo e non un vero Artista. Cominciamo quindi a dire che Bocelli il suo successo se lo è ampiamente sudato e meritato: certi mercati internazionali sono assai più cinici e spietati di molti detrattori, se non piaci....ciao! Avanti un altro. Per non parlare di un mero, basso calcolo economico: si guadagna assai più cantando “canzonette” in tournée con 20\30 date in un colpo solo che con tre recite d’Opera dopo un mese di prove! Non che Bocelli abbia rinunciato a questa attività, ma l’impegno sull’Opera non ha prodotto certo i guadagni siderali e “facili” di cui sopra. Poteva vivere tranquillo in un alveo nazional-pop , senza il pericolo di essere massacrato da noi cultori della voce “avanti” e del Belcanto. Cultori che, diciamocela poi tutta in fondo, sono pronti a digerire degli orrori inqualificabili ma che storcono il naso davanti ai cofanetti prodotti da Andrea Bocelli e dal suo staff.
Ahi ahi, melomania...ninfa gentile....
Sta di fatto che ascoltando questa Aida non mi associo assolutamente a coloro che gridano allo scandalo. Intanto, la prima cosa che ho fatto è stata quella di sfogliare attentamente la partitura (che in questi giorni mi sta incollata a fianco, visto che tra poco più di un mese produrrò come regista una mia nuova Aida nel magnifico Teatro Astra di Gozo a Malta, scusate la citazione autoreferenziale ma alle cose che amo...ci tengo) . Visionata la partitura si notano e vanno ribaditi alcuni concetti: Verdi creò con Aida uno dei capolavori più massacrati ed equivocati dell’intero catalogo operistico. Nulla a che vedere con centinaia, migliaia di esecuzioni tronfie, fracassone, pesanti. Verdi cesellò raffinatezze timbriche e di colori, dinamiche preziose e un susseguirsi di indicazioni che quasi costantemente vengono tradite dagli interpreti. Lo capirono i Grandi: tra gli altri soprattutto Gui, De Sabata,Karajan, Schippers,Gigli, Bergonzi, Callas, Simionato, e in tempi recenti Pappano e Kaufmann, capaci di regalare al mondo un’Aida finalmente INTIMA, NOBILE e RAFFINATA. Scusate, ma queste tre parole vanno scritte in maiuscolo. Zubin Mehta ha alle sue spalle centinaia di Aide ma almeno una discografica STORICA: quella con Corelli e la Nilsson in stato di grazia. In questa sua ultima fatica lo ritroviamo con braccio un pò appesantito (soprattutto nei famosi Ballabili, che sono sì precisi e puliti ma non così brillanti come in passate occasioni) ma sempre aristocratico nella visione complessiva dell’Opera. I primi due atti appaiono lievemente dimessi, forse anche poco misteriosi (per esempio nella scena della consacrazione della spada), insomma siamo lontani dalla cattedrale di suoni meravigliosi costruita da Karajan o dalle magìe di De Sabata, e tutto sembra appiattirsi verso una comoda routine. Poi, come per incanto, a partire dal III atto Mehta prende quota e vola verso le vette cui ci aveva abituati (l’evocazione del Nilo è sempre stato un asso nella manica del direttore indiano) e perfetto risulta il IV atto, con Coro e Orchestra del Maggio magnifici in ogni sezione.
Vocalmente delude un pò l’Aida di Kristin Lewis, che pare una Leontyne Price in sedicesima, non abbastanza convincente nel registro grave, fiacca nelle impennate, un pò anonima in generale. Peccato, perchè il suo esordio fiorentino anni fa in Trovatore lasciava presagire un futuro diverso. L’Amneris di Veronica Simeoni non piacerà ai fanatici delle Amneris “virili”, la voce potrà risultare un pò troppo chiara e poco carnosa: ma è una fine interprete, precisa, espressiva, legata al segno scritto, molto intensa nel caratterizzare una donna innamorata e giovane, Deo gratias, lontana dal cliché delle Amneris “uomo”. Si impone Ambrogio Maestri come Amonasro, un suo ruolo d’elezione, e lo stesso Carlo Colombara come autorevolissimo Ramfis, anche se viene penalizzato da un inspiegabile “allontanamento microfonico” nella scena della spada (“Nume custode e vindice”) , tanto che Bocelli lo sovrasta in primo piano.
 Radames non è esattamente il ruolo in cui vedrei bene Bocelli in teatro: caso mai Edgardo, che non so perchè non ha mai inciso né cantato. Gli manca l’ampleur naturale del mezzo (vedi: Corelli, Filippeschi, Del Monaco) , molti suoni (sulla vocale “e” soprattutto) sono schiacciati e rimandano a un lirismo diverso. MA, ciò precisato, bisogna anche dire che il suo “Celeste Aida” , spiacente per i detrattori, è alla fine il miglior Celeste Aida assieme a quello di Kaufmann, per lo meno il più fedele alle intenzioni di Verdi: perfetto il si bemolle “in morendo” della chiusa, tenuto fino alla fine della Coda orchestrale, giusta l’espressione, ottimi la parte acuta e l’accento impresso a questa aria spessissimo equivocata da parte di schiere di tenori, smaniosi solo di mostrare i muscoli. Completamente da respingere la critica numero uno ascritta a Bocelli: “non è un tenore”. Su quale base poggia questa affermazione? E’ tenore a tutti gli effetti: come timbro, estensione e vocalità. Si può obiettare che non sia un tenore adatto a ruoli drammatici, forse per la qualità piuttosto chiara del timbro e per i decibel espressi senza microfono, ma non si può negare che in questa Aida canti tutto ciò che è stato scritto da Verdi ed è quello che conta in un disco fatto in studio. Quanto al tema dei confronti, a noi melomani tanto caro: meglio non farli mai, per il bene di tutti. A volte si hanno inattese e spiacevoli sorprese. 
 


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