È partito stasera il Festival Verdi a Parma. (...) ecco le mie impressioni, molto stringate. Deludentissima la direzione di Yuri Temirkanov, improntata allo zum pà pà più bieco e in alcuni momenti pure di una lentezza esasperante. Il famoso lato notturno di questo lavoro verdiano? Non si sa. Certo, può essere che in teatro si siano sentite raffinatezze che mi sono sfuggite, ma a me è sembrata proprio una direzione tagliata con l’accetta, chiassosa e superficiale. Marcelo Álvarez, nei panni di Manrico, non mi è proprio piaciuto. In certi momenti i suoi tentativi di alleggerire la voce sono sembrati abbastanza stucchevoli, manierati. Siccome l’ho appena ascoltato come Manrico all’Arena di Verona, direi che la sua prestazione è stata nettamente inferiore. Grandi difficoltà nel cantabile Ah sì ben mio, dove il legato non si è sentito proprio e altrettanto difficoltosa la pira nella quale ha pure cantato il minimo indispensabile, per arrivare più fresco all'acuto finale che non è stato neanche squillante, ma solo rumoroso. Una serata assai storta. Norma Fantini ha cercato di rendere al meglio il lato squisitamente femminile di Leonora, ma se è vero che il canto è stato abbastanza corretto è anche evidente che è mancata quella passionalità, quella fierezza che caratterizza la parte. Buono il fraseggio, abbastanza bella la voce, acuti stridenti, in qualche occasione. Molto in difficoltà nel celebre D'amor sull'ali rosee (stonata e calante mica poco eh?) anche se nel complesso la sua prova può essere considerata discreta, a dispetto di un terzo atto problematico a voler essere buoni. Leo Nucci è sempre lui, più o meno simile da quarant’anni e già questo è motivo di merito, però indubbiamente i portamenti, la tendenza a cantare tutto forte, le poche sfumature, sono difetti che non possono essere taciuti. Poi che abbia ancora voce da vendere nessuno lo può mettere in dubbio e neanche, credo, che alla fine sia risultato il migliore della serata. Il Ferrando di Deyan Vatchkov non ha lasciato il segno sotto alcun punto di vista.
L.Nucci
Marianna Tarasova interpretava Azucena, parte fondamentale come sa chiunque, ed è risultata disastrosa, una vera calamità. Il mezzosoprano ha sciorinato, in tutto l’arco dell’opera, una specie di catalogo leporelliano su ciò che non deve fare una cantante alle prese con il ruolo. Stonata, fuori tempo, urlante, parlante, ansimante e altri participi presenti che non me la sento di scrivere. È stata buata, purtroppo per lei, ma la verità è che era da protestare, diciamolo. Forse, considerato che Azucena ha fama di strega, ha pensato di togliere ogni dubbio e di votarsi al rogo, non so che dire. I comprimari sono stati discreti e mi pare già un fatto positivo, mentre non mi ha convinto il Coro del Regio, che ho apprezzato altre volte in serate migliori. Non mi sento di chiosare sulla regia di Lorenzo Mariani, ma non mi è sembrata malvagia. Applausi tiepidissimi alla fine dell'opera e poi, nell'ordine: applausi per Leo Nucci, buuuu feroci per la Massarova, qualche disapprovazione per la Fantini, approvazioni discrete per Alvarez, parecchi buuuu per il direttore. Applausini per il regista e tutti a casa veloci.(...)
Commento di Enrico:
Si dovrebbe iniziare a "buare" chi scrittura e non solo chi mette la faccia sul palcoscenico. Un tempo si gridava "A morte l'Impresario!" e si pretendeva la restituzione del biglietto.
Si fa un gran parlare oggi in Italia di Cultura e soprattutto di Cultura da sovvenzionare statalmente, da non penalizzare con tagli, da incentivare. Da una questione meramente umanistica e antropologica ( la cultura come coltivazione dell'animo umano , come arricchimento e come insieme di valori fondamentali di ogni singola etnìa) siamo velocemente passati a una concezione politica: la Cultura è a sinistra, la Cultura viene penalizzata dalla Destra e viceversa, quando gli avversari son pronti certificare il contrario. Singolare il fenomeno , tutto italiano, che vede spesso parlare di Cultura persone completamente avulse a questo concetto: l'ignoranza si accompagna invariabilmente alla spocchia e all'ostentazione.
Nel momento in cui stiamo scrivendo l'Italia vive un difficile passaggio: qui parleremo delle Fondazioni liriche, della loro crisi, dei teatri che chiudono, dei vecchi sistemi che cambiano.
(manifestazioni di protesta dei lavoratori del Carlo Felice, Genova)
Cerchiamo di focalizzare innanzitutto la questione del declino dell'Opera, strettamente legata ai tagli delle sovvenzioni pubbliche.
Quando è iniziato il declino dell'Opera? E' stato davvero l'avvento di cinema e Tv a relegare questa forma eccezionale di spettacolo a spazi sempre più ristretti, a un pubblico sempre più scarso e monomaniacale? Da quando e perché il Melodramma si è trasformato in ritrovo di adepti, in Messa cantata e suonata (e costosa) per pochi eletti , ammessi in virtù di non si sa quali meriti al sacro rito? Perché l'Opera nazional-popolare dei tempi di Verdi e Puccini si è progressivamente mutata in qualcosa di sacrale, costoso e fondamentalmente voluttuario?
Intanto sarà bene ricordare ai tantissimi “ignoranti in materia” che l'Opera vide la luce ufficialmente il 6 ottobre del 1600 presso Palazzo Pitti, a Firenze, con la rappresentazione dell' Euridice di Peri e Caccini. Un nobile consesso di plauditores, un avito palazzo come scenario; non vi sono dubbi: uno spettacolo per pochi, un lusso per una cerchia ristretta di privilegiati, nulla a che vedere con i megaeventi di Pavarotti al Central Park, acclamato da giovinastri in brache di tela e canotta, pronti a mangiucchiare un hot-dog tra "La donna è mobile" e "O sole mio".
L'Opera nasce quindi già con un preciso connotato elitario e con la caratteristica di avere in Caccini l’ autore delle musiche e l' esecutore delle medesime. Giulio Caccini fu infatti il primo Divo operistico della Storia, progenitore dei vari Caruso, Gigli, Pavarotti, non a caso tutti tenori. Illuminante la Prefazione che volle apporre alla raccolta musicale denominata Le Nuove Musiche (1602), in cui si prodiga a dare esempi di “buona maniera di cantare”, un esercizio, conveniamone, che se pur ha avuto un principio non avrà probabilmente mai fine.
Dopo i primi esperimenti di successo presso i palazzi e le dimore signorili l'Opera non tardò ad approdare in Teatro. Pur essendo di proprietà dei nobili, i Teatri potevano finalmente ospitare anche le classi più umili, collocate in platea (all'epoca priva dellle comode poltrone in velluto ma provvista di sole panche di legno o posti in piedi) oppure nell'ultima galleria in alto, il famigerato Loggione o Piccionaia. I titolati e i ricconi alloggiavano nei palchi e da lassù, beatamente assisi, tra un gorgheggio e l'altro, potevano divertirsi in vario modo: le opere, soprattutte le prime, erano interminabili, anche sei ore e passa di durata. Uno dei giochi più in voga presso i Teatri della Serenissima (e non solo) consisteva nel far oggetto di sputi i poveracci che se ne stavano sotto, in platea, ad assistere allo spettacolo. Ce lo ricordano vari cronisti di quel periodo: il Saint-Didier in La ville et la République de Venise nel 1680, Gaspare Gozzi nella Gazzetta Veneta n.86, Giuseppe Baretti ne Gli italiani o sia relazione degli usi e costumi d'Italia, 1768-69, che testualmente scrive:
"I nobili hanno l'usanza di sputare dai palchetti nella platea.Quest'usanza odiosa e infame non può derivare se non dal disprezzo che ha l'alta nobiltà pel popolo, nondimeno esso tollera con molta pazienza tale insulto, e ciò che reca più sorpresa, si è ch'esso ama coloro che lo trattano in un modo sì villano; se qualcuno sente sulle mani o sul volto gli effetti di questi oltraggi, non monta sulle furie, ma se ne vendica facendo qualche breve ed arguta esclamazione."
Da ricordare anche che i ridotti dei teatri , cioè i foyers, ospitavano case da gioco. Chi si annoiava , chi non riusciva a digerire i lunghi recitativi di questo o quel personaggio, poteva tranquillamente abbandonare il proprio posto e recarsi a giocare, a bere qualcosa, a chiacchierare con gli amici. Da notare che i servizi igienici , fino a che non venne inventata la moderna toilette, erano rimediati con tragici secchioni posti addirittura all'interno del palco, in angoletti più discreti. Potete immaginare il soave effluvio di rose e gelsomini che invadeva il Teatro, dopo una o due ore di spettacolo:un vero e proprio sconcio, anch'esso censurato dai cronisti di allora.
Il Teatro d'Opera nasce come luogo di ritrovo dell'intera cittadinanza, crocicchio di tutta la comunità che vede in quella enorme bomboniera , affrescata e stuccata d'oro, un ideale centro di socializzazione. I palchetti sono circondati da specchi, che consentano agli astanti di guardare il palcoscenico anche se voltati o sbirciare impunemente le scollature delle damazze più eleganti e vistose. In Teatro si può bere, mangiare, giocare d'azzardo, assistere tra un atto e l'altro dell' operona di turno a piacevoli Intermezzi comici, generalmente eseguiti da pochi interpreti, oppure a balletti, spettacoli di genere circense (funamboli, mangiatori di fuoco, prestigiatori, animali addestrati). Insomma, si entra e non si esce più , fino a tarda o tardissima ora. Il Teatro (Opernhaus in Germania e Austria, Opera House in Inghilterra) è per l'appunto un' altra "casa" , dove trascorrere il tempo, dove vivere e sognare, con l'accompagnamento, a volte solo sottofondo, di musica lirica.
Un normale frequentatore d' Opera di oggi resterebbe scioccato dalle particolari condizioni in cui veniva eseguita una partitura nel Settecento o nell'Ottocento. Il rito iniziatico imposto dalla prassi attuale, fatta di silenzi , di concentrazione, di minimi brusii, si contrappone al clamore, agli schiamazzi, all'incredibile frastuono che accompagnava l'esecuzione di un normale spettacolo operistico. Berlioz , nelle sue Memorie redatte tra il 1803 e il 1865, ricorda così una recita di Elisir d'amore di Donizetti al Teatro della Canobbiana di Milano:
"Trovai la sala zeppa di gente che parlava ad alta voce e girava le spalle alla scena; ciononostante, i cantanti gesticolavano e si spolmonavano a più non posso, o almeno così mi lasciava credere il fatto che li vedevo spalancare una bocca immensa, poiché a causa del rumore che facevano gli spettatori, sarebbe stato comunque impossibile udire altro suono che quello della grancassa. Nei palchi si giocava, si cenava, ec. ec.".
L'Opera nasce quindi come spettacolo per un élite di nobili e di intellettuali, cresce e si esalta nei Teatri fino a conoscere grandi successi nazional-popolari verso la metà dell'Ottocento, matura e si stabilizza nel Novecento come spettacolo per tutti e di tutti, ormai ammirata come reperto archeologico di grande valore, riposta amorevolmente (se va bene) nella teca di un museo.
Fino almeno all'ultimo trentennio del Novecento i cartelloni operistici dei pricipali Enti lirici italiani contavano un considerevole numero di titoli nell'arco della stagione, si andava all'Opera non dico tutti i giorni ma quasi. Così fu nel passato, così è ancora in talune città particolarmente "melomani" da garantire al pubblico una presenza quotidiana in Teatro, Così è a Vienna, a New York, a Monaco di Baviera, a Londra , Zurigo e Parigi. Ovvio che siano queste le mete preferite da chi ama l'Opera e ne vuole fruire in dosi notevoli.
In Italia i principali Enti Lirici, pozzo senza fondo buono per arricchire qualche sovrintendente, direttori artistici e qualche agente a esso collegato, sono andati progressivamente diminuendo i titoli in programma, posticipando l'inizio delle stagioni (l'Opera di Roma è giunta ad inaugurare la stagione a fine gennaio!!!), abbreviandole e centellinando le produzioni al ritmo di una ogni mese o quaranta giorni, per un totale di circa sei,sette titoli annuali! Restano invariati i costi: anche quattro milioni di Euro per una sola produzione, che non vengono nemmeno lambiti dagli incassi e dalle sovvenzioni statali. Di questa cifra si consideri che il solo 19% va per i cachet artistici, il grosso viene divorato dai costi dell'allestimento (regìa, scene, costumi). Cachet stratosferici per registi "alla moda" , magari quelli che ti piazzano un cubo sul palcoscenico e impiegano 40 giorni di prova per far sollevare un braccio al soprano; taluni sono arrivati a percepire anche 500.000 Euro a produzione. Onorari parimenti stratosferici a cantanti (spesso sottobanco una parte) e a direttori d'orchestra. Proprio in questi giorni, in piena cosiddetta “crisi”, i soliti accordi tra il sovrintendente di Parma e il potentissimo super-agente Procinsky, un mammasantissima della categoria, per un Trovatore diretto da Jurj Temirkanov hanno visto furibonde discussioni riguardo il cachet di quest'ultimo, che partiva da 50.000E a recita per poi addivenire alla somma compromissoria di soli 20.000E, sempre a recita. Tutto ciò a fronte di un maestro, indubbiamente bravo ma che non conosce bene il Trovatore: non si poteva chiamarne un altro? Più preparato e meno costoso?
Gli Enti lirici italiani presentano , annualmente, un costante deficit di svariati milioni di euro; molti lo celano goffamente (clamoroso il caso dell'Ente lirico di Cagliari che nel 2004 presenta alla stampa 4,5 milioni di euro di deficit ufficiale , mentre invece la cifra reale risultava triplicata; stesso dicasi per il teatro Carlo Felice, commissariato fino al maggio del 2010 e poi clamorosamente ridotto ai minimi termini , tanto da essere sull'orlo della bancarotta ).
Ovvio che una simile situazione, perdurando nel tempo, abbia condotto a un vero disastro ; agli occhi dei nostri politici, che poi sono corresponsabili poiché da loro provengono le nomine ai vertici dei Teatri, l'Opera diventa un pozzo di San Patrizio, un lusso per pochi eletti o monomaniaci, un bene voluttuario, di cui si può tranquillamente fare a meno. Ci sono tagli da fare alla Finanziaria? Si tagliano i fondi del FUS, Fondo Unico per lo Spettacolo: costringendo il maestro Muti , il direttore d'orchestra più spettacolare, a salire sul podio e ad arringare la folla come Masaniello o Savonarola. "Siamo stufi di mendicare!" ha gridato Muti dal palcoscenico degli Arcimboldi nel luglio 2004, protestando contro il totale disinteresse della politica per la cultura. Soltanto lo 0,39% del bilancio statale viene destinato dall'Italia ai beni culturali, contro l'1,35% della Germania, l'1% della Francia e lo 0,9% del Portogallo. Singolare, nel momento della bufera (quando addirittura si giunge a Genova allo sciopero della fame di 3 lavoratori del Teatro) il silenzio del medesimo “maestrissimo” , il quale si limita a sentenziare a Rai3 :”Ho già dato”.
Il concetto di “dare” cozza violentemente con il concetto di “prendere” visto che il mega-contratto previsto con l'Opera di Roma (due titoli annui e tutta una serie di concessioni al maestro Muti e alla sua “corte”) si aggira, pare, sui 2 milioni e mezzo di euro. E siamo in “crisi”, si badi!
Altra corresponsabile è l'azienda televisiva di servizio pubblico, la Rai, un tempo attenta a riservare spazi importanti alla diffusione della cultura operistica, oggi totalmente dimentica di questo preciso obbligo e impegnata solo a contrastare (per finta) lo strapotere delle reti private. A titolo di pura, nostalgica informazione ricorderò alcuni dei titoli operistici proposti non da un Teatro d'Opera ma dalla stagione organizzata, in forma concertante s'intende (cioé senza scene e costumi), dall'EIAR , l'attuale RAI, nel 1937; si tratta di ben 46 titoli (!) tra cui: Adriana Lecouvreur, Arianna a Nasso (Strauss), Bohème (Puccini), Don Carlos, Elisir d'amore, Faust, Fedora, Manon Lescaut, Trovatore, Wally, ma anche opere nuove o di raro ascolto come Alcassino e Nicoletta (Barbieri), La Bella dormente nel bosco (Respighi), Le preziose ridicole (Lattuada), Siberia (Giordano), Thais (Massenet), insomma , una vera e propria abbuffata. Immaginate che razza di veicolo promozionale ed educativo poteva essere rappresentato dall'Eiar di allora, contro la Rai dell'Isola dei Famosi e de La prova del cuoco di oggi!? Per soffrire un pò di più varrà la pena di ricordare i cantanti di quella stagione: Gigli, Tagliabue, la Albanese, la Cigna, la Stignani, la Adami Corradetti, la Elmo, Merli, Pasero, nomi ormai mitici, leggendari, tra i massimi interpreti di ogni tempo.I direttori d'orchestra, lungi dall'essere routiniers o chaperons di simili cantanti, si chiamavano Gui, Serafin, Mascagni, lo stesso Giordano, Zandonai. Altri tempi, si dirà. Non ne abbiamo il minimo dubbio: altri tempi, se pensiamo che un articolo del 1992 a firma Luigi Pasquinelli ("Rai, il silenzio della musica"), pubblicato sul Messaggero di Roma, denunciava le scandalose 172 ore in un anno dedicate a concerti e opere, contrapposte alle 24.455 totali! Lo stesso anno, il direttore generale della Rai, Pasquarelli, decretò la morte delle orchestre e dei cori della Rai di Roma, Napoli e Milano, lasciando in vita la sola orchestra di Torino, un ennesimo schiaffo alla cultura e alla divulgazione della musica seria. Dal 1992 a oggi le centosettandue ore sono persino diminuite, riducendosi la Lirica alle apparizioni sporadiche di Katia Ricciarelli (dapprima in quanto consorte del potente Baudo, poi in qualità di ex-consorte!) , il Pavarotti International da Modena (durato una decina d'anni, interrotto nel 2004, ma che con l'Opera ebbe assai poco a che vedere), qualche comparsata di Muti (le prime scaligere, per carità di patria non vennero più trasmesse , dopo il clamoroso "flop" del Macbeth su Raiuno nel 1997) e naturalmente Bocelli, a prezzemolo, equamente distribuito tra Papa, Bush, Ground Zero, Limiti, Carrà, Venier, piazze di tutto il mondo e persino Teatri (Bohème da Cagliari, in diretta su Raidue). RaiUno trasforma Marzullo in “maestro di cerimonie” musicale (Musica per sognare o….sognare la Musica?), mentre la sola RaiTre conserva alcuni tradizionali spazi dedicati all'Opera ("Prima della Prima") , ma la messa in onda è stata spostata, colpevolmente, dalla seconda serata alle ore piccole, quando vegliano i gufi e gli insonni cronici. Fanalino di coda la consorte virago di Costanzo, Maria De Filippi, che nel suo popolare show "Amici" decide nel 2009 di inserire giovani talenti del genere operistico: da qui il 'lancio' momentaneo di Matteo Macchioni,scitturato a Salerno per un “Elisir d'amore” diretto da Oren.
Matteo Macchioni e il maestro Oren
In una simile situazione l'ingresso dei privati, la necessità di trovare vivifiche sponsorship, il concetto stesso di ufficio marketing-fund raising (tutte nozioni sconosciute ai cultori famelici del 'vecchio sistema', quelli che hanno salassato e divorato i soldi pubblici nei teatri) sono fondamentali per un vero rinnovo del settore. Il teatro del futuro deve avere UN direttore artistico con UNA o UN segretario al suo fianco e un ufficio marketing ad esso collegato , dinamico, brillante, entusiasta, che attragga risorse verso gli eventi musicali da realizzarsi. Il cartellone non dovrà più dipendere da obblighi e ricatti di agenzia ma da ragionamenti seri, onesti e concreti: si parta dagli interpreti e NON DAI TITOLI. Se non hai il tenore per Trovatore ….non puoi fare il Trovatore.
Intanto, però, c'è il problema di tenere i teatri aperti: i furti perpetrati negli ultimi 20 e passa anni hanno presentato oggi un conto insanguinato.
Vittorio Grigolo è il recente Duca di Mantova nel "Rigoletto" realizzato "nei luoghi e nelle ore" da Andrea Andermann. La presenza è accattivante: un ragazzo che sprizza energìa da ogni poro e che manifesta un trascinante entusiasmo per l'Opera lirica. Grigolo è uno che ci crede: si vede e si sente.
Esce ora , in concomitanza con il controverso evento mediatico, l'album della Sony "The italian tenor" , titolo assai poco fantasioso a dire il vero: da Caruso in poi abbiamo avuto una pletora di "italian tenors" e Grigolo sembra quasi aggiungersi oggi con prepotenza. La copertina lo ritrae pensoso, lo sguardo lievemente corrucciato, abito e cravatta neri alla "Blues Brothers" , mancano gli occhiali da sole e siamo a un passo da John Belushi.
Ma com'è la voce di Vittorio Grigolo?
Intanto è la classica vocalità del tenore lirico leggero: timbro chiaro, a tratti efebico, passaggio di registro alto (tra sol e la bemolle) , acuti brillanti, vibrato stretto, uso di falsettoni e a volte di falsetti, mezzevoci suadenti e sospirose.
Repertorio d'elezione? Presto detto: dal tenorino di Cimarosa e Paisiello (Paolino nel "Matrimonio segreto"), a Nemorino, Conte d'Almaviva, forse il Mozart della Trilogìa dapontiana, arrivando a lambire Traviata, Rigoletto e , extrema ratio (in particolari condizioni acustiche)...Bohème. Il repertorio che fu di Tito Schipa, tanto nomine.
A dire il vero Grigolo è anche un attivissimo cultore del crossover, come dimostrano i molti dischi e i concerti in cui getta un ponte tra la vocalità operistica e quella più eminentemente "leggera"...
Il disco si presenta assai audace nella scelta dei brani: c'è sì Rigoletto ed Elisir, ma campeggiano anche la drammaticissima Luisa Miller, il Ballo in maschera, il Corsaro, addirittura la Manon Lescaut, la Tosca e iol Trovatore per chiudere. Troppo, signori, troppo....direbbe Adriana Lecouvreur.
Grigolo canta tutto, le note sono lì ma è costretto a bluffare oltre i limiti consentiti dal mezzo tecnico: in "Quando le sere al placido" appaiono suoni spoggiati ed esili, che in teatro farebbero fare ben magra figura al loro esecutore. Manca a questo Verdi l'arcata eroica che aveva caratterizzato le memorabili esecuzioni di Bergonzi e Pavarotti, lontani da Vittorio quanto Los Angeles da Roma.
Lo stesso dicasi per Tosca e per Puccini, dove manca alla vocalità schietta e chiara di Grigolo lo slancio appassionato, il velluto, la brunitura naturale del timbro, lo spessore, quella che i vecchi chiamano "la canna". Nella stretta della "Pira" , confrontandosi con il Ruiz vigoroso di Luca Casalin, il Manrico scanzonato di Grigolo fa la figura di uno scolaretto in gita casuale presso i monti di Biscaglia. Intendiamoci: siamo molti passi avanti, tecnicamente parlando, rispetto a un Villazon o a un Kaufmann, ma è proprio la natura vocale a imporre dei precisi limiti a questo artista.
Emerge poi un singolare vezzo, quello di strisciare la "esse" . Carlo Bergonzi, emiliano d.o.c., venne rimproverato da sempre per il suo "Sche quel guerrier io fosschi" ma con Grigolo, romano, il vezzo non si spiega: " Ma ssche m'è forza perderti, per sschempre o vita mia", "...e muoio disschperato...", " Possschente amor mi chiama"....siamo a un passo da Mina.
Preceduto nientemeno che da un discorso “alle nazioni” del Capo dello Stato, il Presidente Napolitano, il “Rigoletto a Mantova” di Andrea Andermann si è presentato in tutto il suo splendore sullo schermo di RaiUno.
Il grande evento mediatico non può prescindere che da una triplice recensione, essendo troppo vasto il raggio d'azione che ricopre una diretta televisiva nel 2010 dedicata a un capolavoro verdiano, qualunque sia il titolo, il cast, la location.
Si parlerà quindi EVENTO ,di RECENSIONE VISIVA e di RECENSIONE MUSICALE dello stesso.
P.Domingo , foto Giglioli (Rada Film)
L'EVENTO
Il successo è annunciato: una diretta dedicata all'opera lirica, seppur divisa in tre diverse fasi (per rispettare la drammaturgìa verdiana) e in due giornate su RaiUno, rete ammiraglia, è già un trionfo di per sé. Trionfo della caparbia volontà del produttore-ideatore Andermann, “the crazy-man” come lo definisce Mehta, capace di assemblare oltre 140 reti televisive interessate e una ingente quantità di capitali in un'epoca che vede l'Opera non solo negletta ma addirittura sconosciuta a larghe fasce di utenti. E' un successo di immagine per l'Italia, paese che vede le sue fondazioni liriche in crisi nera, ma che offre così un volto diverso: il volto di chi produce non solo piagnistei o deficit ma anche Arte, e la diffonde ovunque. E' un successo per Mantova, città in cui si fa male o malissimo l'Opera da decenni (diciamo pure fuori dai circuiti produttivi importanti) ma che ha un bacino d'utenza tradizionalmente forte: quanti cantanti illustri mantovani, quanti appassionati si muovono da quella città! E' un successo per la Rai, che oltre a canzonette e spettacoli di mero e non sempre dignitoso intrattenimento, offre al suo pubblico un prodotto culturalmente alto, non interrotto dalle pubblicità.
atto I, foto Giglioli (Rada Film)
LA RECENSIONE VISIVA
Bellocchio opta per una linea di regìa rispettosa e prudente, di una discrezione addirittura esagerata. Mi ricorda molto il “Rigoletto” con la regìa di Sgarbi a Busseto: più tradizionale, tranquillo, pacifico di quello... Succede così ai registi impauriti dall'impatto micidiale con l'Opera, un genere che ha inventato e ha preceduto tutto e tutti, e con la musica impressionante, densa, terribile di Verdi...che da sola canta e racconta, inesorabile. Una prudenza, quella di Bellocchio, che se va lodata per il rispetto estremo va invece criticata per taluni piccoli inciampi, del tutto fisiologici: troppo moderne le acconciature di alcuni uomini, troppo involontariamente comica la stretta del duetto tra il Duca e Gilda “Addio, addio, speranza ed anima” , con il tira e molla ripetuto fino alla noia tra Giovanna e l'impetuoso Vittorio Grigolo, quest'ultimo decisamente aitante ma over acting sia nel I atto che nella scena con la figlia di Rigoletto; Gilda a sua volta, terminando la sua grande aria “Caro nome” si imbatte faccia a faccia con i congiurati appostati dietro la finestra , senza battere ciglio. D'accordo che la sua casa era invero un po' troppo “frequentata” ...ma così...sembra una casa d'appuntamenti!
Mantova. Vi sono belle inquadrature...ma poche, poche davvero. La fotografia non è eccezionale, Storaro sbaglia le luci in più punti, lasciando al buio i personaggi o con fastidiose ombre sui volti : in Tv la luce diffusa o ambrata funziona per pochi secondi, nemmeno minuti...poi c'è il rischio di allontanare la scena, antichizzarla in modo fasullo e poco coinvolgente.
Andrà fatto un monumento al magnifico Domingo, personaggio totalmente partecipe e credibile, fantastico nella “verità” dei suoi atteggiamenti, intenso , commovente persino quando lo vedi entrare in scena così straordinariamente anziano eppur giovane nello sguardo. Una grande interpretazione. Solo nel duetto con la Novikova, non ha resistito, e com'era già accaduto nell'agnizione tra Simon Boccanegra e Amelia , il rapporto padre-figlia non tarda a trasformarsi, complice lo sguardo “trombino”, in un più plausibile rapporto incestuoso.
Z.Mehta, Orchestra della Rai, foto Giglioli (Rada Film)
LA RECENSIONE MUSICALE
Domingo pasticcia l'entrata, sbaglia le parole, salta qua e là una rispostina, il I atto di Rigoletto non perdona e l'emozione , fisiologica, tradisce il grande tenore. Ma da “Voi congiuraste” la concentrazione aumenta ed esce il fuoriclasse, dalla mostruosa esperienza: dopo 10 minuti è Rigoletto. Si dimentica il colore “chiaro” di certe frasi e i passaggi schiettamente tenorili: siamo di fronte a un grande interprete e a un cantante che sa sempre come si deve tornire una frase, come si legano i suoni, come si dà espressione al senso di una parola. Inoltre, il vantaggio di Domingo è quello del suo magnifico smalto timbrico: infinitamente meglio il suo “Pari siamo” di molti baritoni strozzati, senza far nomi. Certo, un orecchio attento e spietato nota l'età avanzata e la ormai perduta freschezza, ma si concede a questo grande "Cid Campeador" l'onore delle armi.
Vittorio Grigolo si fa prendere un po' la mano da una baldanza eccessiva che va a inficiare una linea di canto più controllata. La voce è a volte tremula, come per un eccesso di espressività e nel grande duetto “E' il sol dell'anima” si rifugia in troppi falsetti, fin quasi a sdilinquirsi nella cadenza finale. Verdi va appoggiato sempre e , come già accadde a Cura in “Traviata”, se certe frasi non vengono adeguatamente sostenute (come Domingo fa sempre) si scivola nella canzonetta. Il Duca è una figura troppo spesso “svirilizzata” , se mi si concede questo termine: speriamo in un secondo atto e terzo atto più deciso, più autorevole, meno compiaciuto.
La Julia Novikova canta bene, è garbata, intonata, precisa, delicata ma le manca l'aplomb della primadonna, forse per inesperienza. Ha un bel personale, è carina, ma gli occhi tradiscono qualche paura di troppo e non “bucano” lo schermo, come invece avviene durante il “Questa o quella” per la terza figurante che il Duca sceglie e bacia durante la sua Ballata. La voce sembrerebbe un po' flebile, a meno che non salti fuori d'improvviso nel III atto, quando si richiede a Gilda un piglio a volte drammatico.
Ruggiero Raimondi è Sparafucile: perfetto scenicamente, meno vocalmente a causa della consueta pronuncia “russa” e di un fa basso che rievocava tragicamente il chiodo infisso nella scarpa e strisciato lungo le assi del palcoscenico, trucco escogitato dai bassi privi di note...basse.
Molto bene gli altri, direi tutti, da Borsa alla Giovanna della Di Tonno ( a un certo punto più Gilda lei della Novikova...ma Giovanna non era un mezzo?) , a Giorgio Gatti a Giorgio Caoduro perfetto come Marullo, Monterone ottimo.
Zubin Mehta, Orchestra della Rai e Coro, attentissimi, precisi, prudenti, senza eccessivi guizzi o particolari "invenzioni", una prestazione di buon livello in condizioni non facili. Un plauso speciale alla Di Pietro, perfetta a guidare la compagine corale.