Il ritorno all'Opera di Roma di "Roberto Devereux" , uno dei titoli della cosiddetta Trilogia Tudor di Donizetti (assieme a Maria Stuarda e Anna Bolena), è all'insegna del tavolo zoppo: il teatro si presenta alla Prima di ieri sera malinconicamente semivuoto, con molti palchi simili ai "fori" del Colosseo, la platea molto lontana dal tutto esaurito. E' evidente che la macchina non sta funzionando: un teatro disertato dal pubblico è un teatro non ben gestito. Del resto, più di qualche voce di corridoio sottolinea lo stato precario delle finanze dell'Opera , che stenta a decollare nonostante lo sventolìo della "bandiera" Muti , invocato come il Pupo dell'Aracoeli ma evidentemente non sufficiente a far rimpinguare le magre casse della fondazione.
Bruno Campanella
Lo spettacolo non è di quelli memorabili. Sul podio Bruno Campanella assicura un fido accompagnamento ed è qualcosa di importante in un'opera belcantistica, ma non basta: manca a questa concertazione la gloria dell'impronta personale, della meticolosa cura del suono, lo scatto vincente del fuoriclasse. "Assecondare le voci" , come suggerisce Campanella nelle note del programma di sala, è un encomiabile esercizio ma non sufficiente. E' una parte del tutto.
Quando poi le voci non spiccano per particolare magnificenza belcantistica, l'esercizio rischia di divenire fine a sé stesso.
Carmela Remigio è una sensibile e intelligente interprete, ma la voce non è adatta al grande ruolo di Elisabetta, che può ascriversi tranquillamente al novero dei tipici drammatici di agilità, comunque a vocalità sfogate, capaci di esplorare altri grandi ruoli (le varie Caballé, Gencer, Sills, Kabaivanska avevano un'ampia gamma da esibire e parecchie carte da giocare). La Remigio, con la sua voce chiara e leggera, decisamente mozartiana, messa a repentaglio dai recitativi drammatici e dagli scatti d'ira continui della regina, è costretta a "bluffare" frase dopo frase, fin quasi a guastare il timbro e a renderlo aspro, oscillante, con molte note che allargate inopinatamente, finiscono "indietro" di posizione, rivelando la scarsa proiezione e persino una limitata gamma in zona acuta. Non a caso, la Remigio che dovrebbe svettare finisce per omettere qualsiasi sopracuto, eliminando quindi quella prerogativa belcantistica che è propria dell'opera donizettiana.
La recitazione, complice una assente regìa affidata a Joseph Franconi Lee, è tutta basata sulla solita Elisabetta claudicante e perennemente furibonda , ma non tarda a manifestarsi nella minuta figura della Remigio in un pericoloso misto tra la bambola dei Racconti di Hoffmann e il robot di un vecchio film di Sordi, "Io e Caterina". Lo scettro continuamente brandito come una scopa, le mossette a scatti, le smorfie....tutto ciò toglie grandeur e regalità al personaggio, che da regina d'Inghilterra si tramuta nella Filumena di Titina De Filippo.
Tuttavia , in un empito d'orgoglio, la Remigio è riuscita ad eseguire con classe l'aria "Vivi ingrato" , scritta per le sue note, e ha dato tutto nella cabaletta "Quel sangue versato" , pur senza il sopracuto finale.
Al suo fianco Sonia Ganassi ha sfoderato la ben nota classe e musicalità, con una prestazione in crescendo che ha visto man mano delinearsi un bel personaggio. La Ganassi è, a mio parere, un soprano e quindi soffre nella tessitura medio-grave, sebbene la tecnica e l'intelligenza dell'interprete, esperta in questo repertorio , le assicurino una resa costante. Assai meglio nel III atto, dopo un inizio un pò in sordina.
Il tenore Massimiliano Pisapìa è Roberto Devereux. L a voce si impone subito per lo squillo e l'ampiezza, una vera voce, che mette in difficoltà nei duetti le due colleghe. Purtroppo il personaggio non è "sentito", forse per la completa assenza della regìa. Pisapìa tende a piazzarsi al centro del palcoscenico e a eseguire quello che io chiamo "concerto in costume" , senza mai guardare in volto le sue donne. Ne risente anche il fraseggio e lo stile, che tende a essere più "verista" e poco belcantistico. Pisapìa ha debuttato il ruolo nel 2006, a Bergamo.
Trionfatore della serata, direi perfetto nella parte del Duca di Nottingham , il baritono Alberto Gazale: vocalità ampia e cordiale, legato ottimo, lunghi fiati espressivi, estensione omogenea , fraseggio sempre pertinente.
Buona la prova dell'orchestra e un pò sbiadita quella del Coro, a tratti intimidito e impreciso, come nella I scena del II atto.
Bello lo spettacolo di Fassini e i costumi d'epoca di David Walker.
L'88 Festival estivo all'Arena di Verona chiude con le ultime repliche di Carmen, Trovatore, Aida firmate Franco Zeffirelli.
Trionfa in arena il Bello, inteso come dato oggettivo inconfutabile: il biglietto è già pagato con la cinematografica visione della piazza di Siviglia, animata da mille personaggi, viva come non mai e dall'entrata al galoppo di un dragone durante la scena della baruffa tra sigaraie. Ogni angolo dell'immenso anfiteatro è sfruttato dall'impostazione registica, mai noiosa mai irrispettosa, sempre tesa a raccontare una storia. I meravigliosi costumi di Anna Anni, le coreografie gitane di El Camborio fanno il resto, in una festa di colori e di emozioni che si vorrebbe non finisse mai.
Con il Trovatore assistiamo a un altro miracolo.Non è facile rendere spettacolare un'opera così cupa, essenzialmente notturna, concepita tra giardini appena illuminati dalla luna, accampamenti, prigioni, bugnati di fortezze medievali. Eppure Zeffirelli riesce a trasformare persino questo drammone a fosche tinte in una festa , senza mai ledere la drammaturgìa anzi...contribuendo a farci vivere da vicino la storia di Azucena e di Manrico. Nella scena della monacazione di Leonora il coup-de-théatre : il torrione centrale, grigio e aguzzo, si apre trasformadosi in un colossale altare dorato....un colpo d'occhio fantastico, proprio in uno dei punti meno spettacolari del Trovatore e , puntuale, , scatta l'applauso a scena aperta del pubblico.
L'Aida punta tutto su una enorme piramide d'oro, girevole, che consente un pratico avvicendarsi degli otto quadri dell'opera. Qui trionfano i costumi della Anni e le coreografie di Vassilev, oltre ai movimenti misurati e razionali delle masse. Fantastico il III atto, che del resto è uno dei gioielli di Zeffirelli in tutte le sue produzioni, compresa quella storica “miniature” creata per il teatrino di Busseto.
Veniamo alle voci delle ultime tre recite. In Carmen ha trionfato la meravigliosa Micaela di Silvia Dalla Benetta, la miglior interprete di questo ruolo da me ascoltata negli ultimi anni. Vocalità morbida, di bel colore, capace di smorzare o rinforzare i suoni, fino a una splendida messa di voce (piano, forte, piano) nel finale della sua aria, misurata ed elegante in scena: perfetta.
Deludente la prova della protagonista,Kirstin Chavez, giunta a sostituire l'indisposta Kate Aldrich: una Carmen perennemente scosciata, in posa ginecologica, dotata di una voce piuttosto ingolfata in basso e poco intonata sulle note acute. Apprezzabile il buon materiale del debuttante tenore Jorge de Lèon, ma ancora troppo grezzo per una parte complessa e ricca di nuances come quella di Don José.
Molto bene il giovane basso Alexander Vinogradov come Escamillo, appena 33enne e già tecnicamente molto sicuro, con acuti sonori, a gola aperta, e note basse sicurissime: un elemento su cui puntare .
Si sono distinti per solidità e sicurezza Carlo Bosi come Remendado (un lusso), Signorini come Zuniga, Ceriani in Morales e la Mercedes di Asude Karayavuz , tutte voci da prime parti. Priva di squillo e quasi anonima la Frasquita di Simge Buyukedes.
La direzione di Kovatchev, fin troppo brillante e baldanzosa, ha penalizzato i passaggi più lirici e drammatici del capolavoro di Bizet, benissimo il Coro diretto da Giovanni Andreoli.
In Trovatore , forse per il vento gelido che spirava in arena, tutti un po' sottotono. Marcelo Alvarez è sempre il tenore generoso e solare che conosciamo, ma troppe note erano 'aperte' e perdevano in squillo: si notava un po' di stanchezza e il vento non è certo un alleato dell'emissione, quando si canta all'aperto. Tuttavia un personaggio di sicura presa, un fraseggio scolpito e sempre credibile.
Malissimo il soprano Ande-Louise Bogza, in serata no: parole sbagliate, amnesìe, stonature clamorose, urla calanti su ogni acuto che superasse il si bemolle. Da dimenticare.
Ottimo Alberto Gazale, il cui colore e fraseggio ricordano sempre di più i grandi Protti e Cappuccilli. Tuttavia, anche lui disturbato dalle condizioni atmosferiche, ha avuto un'incertezza di intonazione sull'aria “Il balen” , corretta nella seconda parte.
Bene la Azucena di Andrea Ulbrich, soprattutto nel registro acuto sicurissimo.
Ottimi Giuseppini come Ferrando e il Ruiz di Carlo Bosi.
Marco Armiliato ha diretto in modo asciutto e preciso, assicurando un ritmo incalzante ma mai pasticciato, assecondato molto bene dalla compagine orchestrale.
In Aida la palma d'oro va ad Amarilli Nizza , che ha regalato un memorabile “Cieli azzurri” con tanto di do attaccato pianissimo e rinforzato tenuto un'eternità: una prova magistrale da parte di una cantante che oltre a saper usare la voce assai bene , sa usare la testa!
Ottimo anche Ambrogio Maestri, tonante Amonasro, scivolato su una buccia di banana (vocale) sul terribile “Ah....doman voi potrìa il fato colpir” dell'entrata ma per il resto poderoso e di splendido colore.
Piero Giuliacci è stato un sicurissimo Radames e in vari momenti mi ha ricordato la voce di Aureliano Pertile, che non era bellissima ma ottimamente emessa, sicura. Ha superato tutti gli innumerevoli scogli di questa parte, appena penalizzato dal costume e dal trucco, con quella coroncina che lo faceva somigliare a Ebe Stignani come Adalgisa. Piero: la prossima volta rifiutati e fai come Schipa, truccati da solo!
Giovanna Casolla è stata una sorprendente Amneris, fantastica nel fraseggio e nelle note alte, quasi completamente vuota in basso dove non usa (chissà perché?!) il suo registro di petto, con l'effetto di farsi udire bene solo a metà. Tuttavia una prova eccellente e un costume che la ringiovaniva tantissimo.
I bassi non erano al meglio, ma Prestìa è stato un buon Ramfis anche se tende a cantare con il volto perennemente rivolto al pavimento. Perfetti Casertano come Messaggero e la Trevisan come Sacerdotessa.
Oren mangia pane e Aida, ha “domato” la partitura, anche se in quest'ultima recita con qualche svarione, comprensibile e perdonabile.
L'Aida di Verdi torna alle Terme di Caracalla in una versione 'tascabile' , considerando il palcoscenico stretto stretto e certamente poco adatto a ospitare la pompa che questo Grand Opéra richiede, almeno nei primi due atti. E' una fatica improba sostenere gli otto quadri scenici, con il cambio a vista per evitare gli impossibili tre intervalli e limitarsi a uno solo, dopo la scena del Trionfo. I macchinisti dell'Opera di Roma, bravissimi, fanno il loro dovere e spostando ad arte le scene debitamente carrellate , realizzano la magìa: il tempio passa da un esterno all'interno, le colonne si aprono, le scale compaiono e scompaiono a richiesta, dal Nilo si passa alla tomba, tutto in pochi minuti.
La regìa di Maurizio De Mattìa è funzionale per un'Aida pronto uso, prèt à porter, molto colorata, un po' troppo affollata nel II atto , con costumi che mescolano l'Egitto antico con le più moderne e sempre attuali odalische arabe.Le luci, ora bluastre ora fucsia o violacee, riportano un pò troppo a Gardaland e ci allontanano da Menfi. I personaggi sono bloccati in proscenio e pensano solo a cantare le loro note al pubblico: perché non si guardano? Perché non giustificano l'azione drammatica? Paura? “Tanto siamo all'aperto....”? Nel 2010 ciò non è possibile, soprattutto quando una fondazione importante garantisce mezzi e prove a una serie di professionisti famosi e attivi in tutto il mondo.
Protagonista è Micaela Carosi, un soprano che in questi ultimi anni è asceso ai massimi vertici internazionali nel repertorio verdiano e pucciniano. La voce è molto bella di colore, ampia, duttile e credo sia proprio l'inusitata dovizia di mezzi ad aver spinto le direzioni artistiche e la stessa Micaela a indirizzarsi verso il genere cosiddetto 'lirico-spinto' , se non addirittura drammatico. Nel suo repertorio figurano Aida, Tosca, Forza del destino, Ballo in maschera, Norma, Manon Lescaut, Madama Butterfly....tutti ruoli che suppongono una solidità non solo vocale ma soprattutto tecnica. Ieri sera ho notato nell'assetto vocale della Carosi degli evidenti cedimenti, che voglio attribuire alla stanchezza e all'afa romana, in questi giorni particolarmente fastidiosa. Però, da amico (a che servono gli amici se non a consigliare e a rilevare ciò che non funziona?) voglio dire a Micaela che gli slittamenti di intonazione (nel corso di tutta l'opera ma soprattutto nel III atto) , l'impostazione troppo 'aperta' negli acuti (si bemolli ) , l'oscillazione evidente in molti passaggi e il do faticosissimo dei “Cieli azzurri” , sono un segnale rosso che indica due cose: 1) necessità di riposarsi e di riaggiustare l'emissione dopo il surplus lavorativo; 2) rivedere il repertorio, evitando date ravvicinate, e indirizzandosi verso un maggior lirismo. Perché alla base , secondo me, Micaela Carosi ha una voce lirica, un gran lirico come erano i lirici all'antica.
Walter Fraccaro è stato un buon Radames, capace di superare ogni ostacolo a cominciare dal tremendo “Celeste Aida”. La voce non è stupenda, vi sono molte inflessioni nasali, ma è gestita con oculatezza e con un fraseggio classico, non avaro di colori (si sente la scuola del grande, sommo Carlo Bergonzi). Inoltre è intonatissimo , dote ormai quasi rara. Peccato che la recitazione sia amorfa, statica da morire, un palo (ma la responsabilità in questi casi è della regìa: Maurizio!!! ).
Trionfatrice della serata la veterana Casolla come Amneris: autorevole fin dalla prima frase, sempre in parte, espressiva, fortissima nel registro alto nonostante qualche nota gutturale in basso.
Altro trionfatore Angelo Casertano che nella piccola parte del Messaggero ha dimostrato cosa significhi cantare: bravissimo!
Non mi è piaciuto il rude baritono Segreij Murzaev come Amonasro: voce grossa più che squillante, sempre sul forte, stecca sulle note acute (perché non sa attaccare morbidamente una sola frase delle tante previste da Verdi).
Buono Marco Spotti come Ramfis , non così Carlo Striuli come Re, tendente troppo al 'parlato'.
La direzione di Oren si è manifestata come sempre partecipe e corretta, con tempi un po' troppo rapidi (la solita ansia di perdere il treno!). L'orchestra e il Coro (troppo povero, mancavano gli aggiunti) hanno mantenuto alto il livello musicale, con punte di eccellenza negli assoli dell'oboe e nella sezione degli ottoni, magnifica la banda fuori scena, ottime le trombe d'argento per la Marcia.
Pubblico in prevalenza turistico, applausi per tutti ma con maggior fervore nei confronti della Casolla, della Carosi e di Fraccaro.