New York 4 maggio 2010, va in scena "Armida" di Rossini al Metropolitan, per la prima volta nella sua storia. La cosa non sarebbe stata possibile, assicura il general manager del Met Peter Gelb, se non vi fosse stata la disponibilità del soprano René Fleming.
Il battage pubblicitario, com'è tradizione negli Usa, inizia con mesi di anticipo. Ecco apparire immagini glamour che ritraggono la bella René in pose significative, adeguatamente ritoccate e patinate. Se devo essere sincero, vedendo quelle foto con la palla magica in mano, non ho pensato alla mitica maga protagonista dell'opera di Rossini, bensì a una più casereccia fatucchiera da 144, quelle che fingono di predirti il futuro in Tv, la potremmo chiamare "la maga René" e le potremmo subito chiedere cosa ne sarà dell'opera lirica in Italia...
Al Met le cose funzionano diversamente, come sempre. UN teatro da 3800 posti, ogni sera tutto esaurito. Ed è singolare assistere alla rappresentazione di un'opera così desueta, che da noi riuscirebbe a mala pena a riempire un piccolo teatro da 1000 posti, in uno spazio così ampio e forse anche dispersivo. Il Met, a mio parere, non si addice a questo genere a meno che non si voglia impiantare uno spettacolo faraonico, nello stile di Zeffirelli o De Ana, per capirci.
Nulla di tutto ciò. La regista , Mary Zimmermann, preferisce una strada più sobria e più stilizzata, creando una sorta di strano padiglione che potrebbe ben figurare a Gardaland o, visto che siamo negli Usa, alla Warner Bros di Los Angeles.
Per la Zimmermann "Armida" è un'opera essenzialmente comica, come l'"Inganno felice", "Cenerentola" o "Il Barbiere di Siviglia". Armida è una vamp dagli abiti da sera neri o fucsia, vestita da sposa al suo apparire, non più su un carro trainato da Furie ma sopra un più tranquillo carretto in legno. Le sue magìe evocano diavoletti saltellanti, che al loro apparire fanno ridere di gusto il pubblico del Met. Si ride anche per il Ballo, poiché gli stessi diavoletti intrecciano danze da varietà del sabato sera, con mossette,sculettamenti, capriole e coriandoli luccicanti.
Un piccolo Cupido (da lontano sembra Renata Scotto giovane come Adina) appare in continuazione, è l'Amore che invano tenta di conquistare il cuore di Rinaldo.
Il giardino di Armida diventa una distesa di finti tulipani di plastica, palme di cartone, luci blu rosse verdi...è Alice nel Paese delle Meraviglie di Gardaland. Non è esattamente questo che intendeva Rossini...credo.
Ma veniamo alle voci.
René Fleming si presenta molto bella, come nella foto, ma con la metà della voce necessaria. Armida dovrebbe essere un soprano drammatico di agilità e Rossini, per sua esplicita volontà, prescriveva le cosiddette "agilità di forza" , cioé non voleva in scena un soprano leggero che risultasse diafano ed evanescente. La Fleming canta come se stesse accennando la parte, la si può capire visto che l parte è mostruosamente difficile. Ma "salvarsi" non vuol dire interpretare un ruolo, soprattutto se è al di sopra delle proprie possibilità. Il risultato è quello d'un canto alla lunga noioso, spento, privo di quella autorità e di quel nerbo necessario a una figura epica. Le agilità ci sono ma spesso la bella René le smorza in gorgoglii poco sensati. L'intonazione non è perfetta e qua e là appaiono note calanti , la dizione è lamentosa, da gatta in calore, con la tipica gnagnera americana. Va meglio la sezione acuta e soprattutto nel III atto la Fleming qualche zampata la dà, nel Finale essenzialmente, per la splendida scena di delirio prevista da Rossini.
Armida è anche l'opera dei 5 tenori. Qui le cose funzionavano meglio: magnifico John Osborn come Goffredo, trionfatore della serata con Lawrence Brownlee (ottimo Rinaldo, esteso agilissimo e musicalissimo), efficace Barry Banks come Carlo, uno dei paladini. Non così bene gli altri due, José Manuel Zapata , che è naufragato nella grande aria di Gernando, e Kobie van Rensburg, terribile come Ubaldo , il quale da lontano mostrava una vaga rassomiglianza con Domingo, ma solo fisica poiché vocalmente eravamo al di là della soglia di sicurezza.
Sul podio il maestro italiano Riccardo Frizza, che non ho trovato né particolarmente brillante né autorevole, fin dalle prime battute, con un corno terribilmente stonato. Pur cercando di far quadrare i parecchi conti aperti di questa difficile partitura, Frizza restava piuttosto giù di tono.
Stasera Tosca, con Daniela Dessì e Marcello Giordani.
…..e così abbiamo verificato che Placido Domingo non è un baritono ma è e resta un tenore, seppure a corto di acuti.
Il Simon Boccanegra alla Scala, dopo due recite, conferma una buona forma vocale nonostante la lunghissima , onerosa carriera e il recente intervento chirurgico ma dimostra che nel Canto non si può bluffare. Mancano a Domingo gli armonici, i colori, la densità, l'autorevolezza di una voce baritonale verdiana: Domingo non è Tibbett, non è Warren, non è Taddei né Gobbi, non è McNeil, non è Milnes e non è nemmeno Bruson o Nucci. Domingo è un tenore molto eclettico, dotato di bel colore e di straordinaria musicalità, ma non può ricoprire dignitosamente un ruolo tanto importante quale quello del Doge.
Imbarazzante l'affanno del Prologo, quasi parodistiche le grandi frasi che aprono la scena del Senato, inesistente la “terribilità” della maledizione a Paolo, in difficoltà palese nei cantabili del duetto con Amelia e nel finale...Domingo ha voluto togliersi un capriccio, lo ha fatto, si è preso anche degli affettuosissimi applausi e l'ammirazione commossa di tutti i suoi fans...ma adesso STOP. E' un consiglio, soprattutto in vista dei ventilati impegni: Conte di Luna, Rigoletto....dico...scherziamo?
A fianco del prode una compagnìa miseranda, più vicina all'Armata Brancaleone che a un decoroso cast scaligero: mi è molto dispiaciuto per le non buone condizioni del basso Ferruccio Furlanetto,
unica voce autorevole del gruppo e in possesso dei cosiddetti “crismi verdiani”, purtroppo spesso portato a suoni declamati, forzati, gridati quando avrebbe potuto giocare sul colore e sulla morbidezza (come facevano, pur anziani, Christoff, Siepi, Giaiotti). Colpa anche del concertatore, un disinteressato Barenboim che, nonostante alcuni buoni momenti, procedeva a fasi alterne, senza una linea omogenea e con un'orchestra spesso sporca negli attacchi e poco incisiva.
Malissimo come Amelia la Perez,
spesso stonata e debole, corretto ma con suoni ovattati il tenore Sartori, privo di quello charme timbrico che un grande tenore verdiano DEVE possedere, sopra le righe l'unico baritono della serata, Massimo Cavalletti (Paolo), forse perché -in assenza del baritono protagonista- sentiva l'obbligo di dover cantare per due.
Alla fine sonori fischi per il direttore d'orchestra, per il basso, in parte per il tenore e un sostegno morale per il beniamino Placido, al quale in Scala per tradizione si perdona tutto.
Evviva c'è la Petibon. Patricia è una simpatica ragazza che da anni diverte e incanta, grazie alla notevole distribuzione dei suoi dischi, Decca e Deutsche Grammophon.
Il look ricorda un pò Rita Pavone, un pò la Mannoia, ma soprattutto l'indimenticabile Pippi Calzelunghe.
La voce è quella cui ci ha abituati il mal digerito equivoco per cui il canto barocco debba essere destinato a figure diafane ed evanescenti, con suoni possibilmente esili e poco sostenuti dal fiato. Non ho mai capito perché ai poveri Vivaldi , Haendel & C. sia riservato questo singolare destino.
La Petibon non si sottrae alla regola e inoltre aggiunge quella che mi piace chiamare l'isterìa barocca , quel pizzico di follìa interpretativa che produce mosse, mossette, ghigni, occhi strabuzzati, balletti , a metà strada tra Ninì Tirabusciò e la Litizzetto nei suoi momenti migliori.
L'isterìa barocca nasce con Cecilia Bartoli, seguita a ruota da Vivica Génaux.
Sul podio si agita , ride e saltella il maestro Marcon, con la tarantolata orchestra barocca di Venezia. Tutti che ballano e ridono come nella "Chanson bohème" della Carmen.
Svetla Vassileva è un bellissimo soprano bulgaro, nata nella stessa città di una famosissima Tosca: Raina Kabaivanska. Non so se sia l'aria di Burgas, ma è indubbio che l'aria in quel posto sia particolarmente buona per chi fa Arte.
Il debutto della Vassileva in Tosca è avvenuto venerdì scorso all'Opera di Roma, dopo una carriera all'insegna dei ruoli lirico leggeri e lirici, man mano indirizzata verso i perigliosi scogli del soprano drammatico.
In scena una bellissima Tosca, non c'è che dire, ma la voce ha mostrato una fastidiosa tendenza a 'spingere' sugli acuti per superare l'ampia orchestra pucciniana ed è risultata troppo debole nella zona medio-grave, laddove Tosca tira fuori le unghie .
A fianco della Vassileva un Marcello Giordani (Mario) svettante e sicurissimo in alto e un dimagritissimo Juan Pons (Scarpia), ancora molto autorevole nei panni del Barone.
Sul podio, funzionale ma forse un pò troppo preoccupato a far quadrare i conti sacrificando un maggior gioco dinamico e coloristico, Fabrizio Maria Carminati.
La regìa era di Marco Gandini, con le scene storiche di Hohenstein riprese illo tempore da Bolognini. Troppi errori, troppa sciatterìa, troppo facile didascalismo, senza una idea buona che sia una. "Tutta qui la Cantorìa!" dice il Sacrestano e la Cantorìa è già schierata da un quarto d'ora...."Toh?! Nessuno?!" dice ancora il Sacrestano mentre Mario e Angelotti li ha davanti al proprio naso...sono cose che possono succedere nelle recite delle cosiddette "spedizioni punitive" ma non all'Opera di Roma, dove Tosca è nata.
Successo scarso e poca convinzione negli applausi del pubblico...