I VESPRI SICILIANI
TORINO , TEATRO REGIO
Non sono mai stato un fautore delle regìe stupide, cioé iconoclaste solo per il gusto di provocare , ma sono completamente a favore delle regìe che esprimono delle idee e le realizzano con coerenza. I “Vespri siciliani” di Verdi allestiti al Teatro Regio di Torino , in occasione del 150mo anniversario del Regno d'Italia (e non dell'Italia Unita, come stoltamente si legge un po' ovunque!), sono il pregevole risultato di un lavoro fatto PENSANDO e ne è autore il regista Davide Livermore, che ha scelto la via dell'attualizzazione.
E' una strada spesso pericolosa ma non necessariamente più difficile: è sempre molto più complicato rappresentare un'opera lirica nei tempi originali e con i costumi previsti dal libretto, immaginate poi i “Vespri siciliani” anno 1282, così come viene per esempio effigiato nel celebre quadro di Hayez.
Calzamaglie, berretti, alabarde, siamo sinceri: più semplice e familiare la Sicilia di Falcone e Borsellino che quella di Carlo I d'Angiò!
Noseda e Livermore in scena
Ma il lavoro meticoloso e variegato di Livermore non è semplice affatto: l'intento finale del regista ci è parso quello di denunciare apertamente le condizioni generali dell'Italia oggi, partendo dalla strage di Capaci (1992) e arrivando alla Tv trash delle veline, dei commentatori cinici , del gobbo che colma il vuoto delle idee, della politica e dei poteri forti fatta di maschere di gomma, ipocrite e tragiche. Livermore corre un solo rischio, quello di sorvolare sulla trama in sé dei “Vespri” che, com'è noto, riduce la rivolta siciliana all'ultimo minuto della lunghissima opera mentre incentra tutto sulla vicenda amorosa della duchessa Elena , sorella di Federigo d'Austria, con il giovane siciliano Arrigo, figlio del governatore francese Monforte.
Non è semplice tenere le fila di questo racconto, così fortemente melodrammatico e diciamolo pure assai poco spettacolare: funziona meravigliosamente la perorazione di Elena nel I atto, che rievoca l'eroica figura della vedova Schifani. Livermore riesce a rendere coerente ogni frase del testo , laddove l'incitazione alla rivolta dei siciliani sembra esattamente riprendere il pensiero disperato della vedova :” ...qui non esiste l'Amore...non c'è più l'Amore...” . Frasi che purtroppo sono scolpite nella memoria di ogni italiano. Un altro straordinario momento è la trasformazione della tarantella , citata da Verdi, in un tragico ballo fatto dalle maschere di gomma, quelle che ci circondano e che ogni giorno vediamo sfilare a Ballarò, a Porta a porta, ad Anno Zero.
I problemi nascono nel III e IV atto e qui l'idea di Livermore viene penalizzata dal carattere di feuilleton imposto dal libretto di Arnaldo Fusinato. Sì, c'è la mafia, c'è il carcere, c'è Monforte che supplica Arrigo di riconoscerlo come padre affettuoso, c'è il basso Procida, a metà strada tra un rivoluzionario e un picciotto....ma lo spettacolo si ferma, o meglio, subisce una brusca frenata e per fortuna che la splendida musica di Verdi aiuta a colmare ogni eventuale “buco”. Nel V atto Livermore ritrova il filone giusto e riesce, con somma ironia, a cogliere l'aspetto frivolo e anche disincantato del matrimonio tra Elena e Arrigo: il famoso Bolero (“Mercè dilette amiche”) diventa un'intervista della Diva, con tanto di cronista ebete , il finale propone invece la rivolta del popolo-bue che si toglie la maschera e grida “Vendetta!” , mentre sul fondale appare il monito costituzionale sul popolo sovrano. Insomma, per la celebrazione del 150mo del Regno d'Italia uno spettacolo degno, ragionato, denso di importanti significati.
Magnifico il cast e considerando che siamo davanti a una delle opere musicalmente più difficili di Verdi, c'è davvero da esultare. Porrei in primis il basso Ildar Adrazakov, sontuoso e musicalissimo Procida, di splendido timbro e magnifica vocalità:a lui la palma del migliore in campo. Gregory Kunde non gli è stato da meno: dopo una lunga carriera rossiniana e belcantistica, giunge al tremendo ruolo di Arrigo con sicurezza tecnica e un perfetto aplomb interpretativo. Qua e là qualche opacità e un po' di stanchezza , assolutamente lecite, ma l'aria , i duetti, il terzetto, i concertati sono risolti da grande professionista e con un impeto che non ritroviamo in molti conclamati tenori verdiani. Nel V atto Kunde esegue il re del duettino con un corposo falsettone, esattamente come si faceva ai tempi di Verdi, e interpola un do al termine del terzetto con Elena e Procida, nota un po' fissa e forse inutile in questo contesto.
Elena era Maria Agresta, che ha rimpiazzato una indisposta Sondra Radvanovsky . Mi è piaciuta molto, nonostante qualche incertezza nel finale dell'aria “Arrigo, ah parli a un core”, in cui per mancanza di appoggio un paio di note si sono incrinate: la Agresta vinse Spoleto nel 2006 e si è in seguito perfezionata con Raina Kabaivanska, che dei “Vespri” fu interprete proprio a Torino, con la regìa di Maria Callas, nel 1973. Una voce molto omogenea , intonata e squillante nel registro alto, sufficientemente agile per risolvere l'aria d'entrata e il Bolero. Deve solo sciogliersi come attrice e pensare più al personaggio, all'espressione.
La Radvanovsky ha cantato , come ho saputo, non bene alla Prima, il 16 marzo. Dalle immagini e dai suoni proposti da RaiStoria , riferiti alle prove, l'ho trovata molto mal messa, con suoni a volte gridati e poco intonati, afflitta da una vibrazione continua (nonostante Noseda le gridasse, mentendo :”Bravissima! Magnifica!” ….ah, la bugìa pietosa ai maestri è concessa, per parafrasare Traviata). Spero si riprenda al più presto, ma ho l'impressione che questo stato di forma non sia dovuto a raffreddori o mali di stagione, piuttosto a uno stress vocale e a un repertorio probabilmente troppo oneroso a fronte di precisi limiti tecnici non totalmente risolti.
Il baritono Franco Vassallo non è andato al di là di una prova decorosa, onesta. Ma la voce ha delle disuguaglianze improvvise, ora troppo chiara ora ingolfata nel tentativo di renderla più scura e imponente. Assenti le mezzevoci, che pur sono richieste nell'aria “In braccio alle dovizie”.
Di grande livello la concertazione del maestro Gianandrea Noseda: limpida, pulita, chiara, robusta ma mai enfatica, tempi giusti. Solo nell'ultimo atto, il terzetto è andato un po' a ramengo, causa la stanchezza generale e una perdita di concentrazione. Per il resto un'orchestra del Regio in forma smagliante, e così il Coro, che ha recitato la difficile regìa con grande partecipazione e bravura. Non esito a definire il Regio di Torino, oggi, il miglior teatro d'opera italiano.
Successo calorosissimo da parte del pubblico. |