Recensioni
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Sabato 30 Aprile 2011 08:46 |
Aida al Maggio Musicale \ 2011
Mehta\ He, Berti, d'Intino, Maestri,Prestìa
regìa: F.Ozpetek
“Aida” con Zubin Mehta sul podio è il Classico dei Classici. L'opera di Verdi è la più rappresentata al mondo e il direttore d'orchestra indiano ha legato il suo nome in modo indissolubile a questo titolo, avendo al suo attivo una quantità considerevole di produzioni e una memorabile incisione in studio con la Nilsson, Corelli, Bumbry e Sereni per la Emi, considerata tra le migliori di tutta la storia del disco.
Il Maggio Musicale propone nel 2011 una versione assolutamente “classica” e tradizionale: oltre a Mehta, un cast di sicuro affidamento formato dalle migliori voci oggi in circolazione: il soprano Hui He come Aida, Marco Berti nella parte di Radames, Luciana d'Intino come Amneris, il baritono Ambrogio Maestri come Amonasro, il basso Giacomo Prestìa nei panni di Ramfis. Sono le voci che si ascoltano in quest'opera all'Arena di Verona, al Metropolitan di New York, alla Scala, al Covent Garden, in tutti i maggiori teatri del mondo. In aggiunta, a sorpresa (poiché il Maggio ci ha abituati da sempre alle “sperimentazioni” registiche) una messa in scena che più tradizionale e classica non si può, affidata a Ferzan Ozpetek, regista italo-turco abituato al cinema e alla televisione, che però disegna un'Aida assolutamente fedele ai luoghi, alle ore, ai tempi voluti dall'autore.
Tutto bene, dunque. Grande succeso di pubblico, tutti felici e contenti.
Eppure, per dovere di cronaca (e aggiungerei “di coscienza”), dobbiamo sottolineare qualche défaillance , alcune risibili altre più gravi.
Intanto, sottolineata l'ottima prova dell'orchestra e del Coro e la sicura bacchetta di Mehta, sempre vigile e attentissimo a ogni dettaglio, si deve tuttavia notare una concertazione più prudente e controllata che appassionata e veemente, come se il “conductor” fosse preoccupato maggiormente dal classico “far quadrare i conti” che dall'imprimere un taglio personale e analitico. Non è un rimprovero: ben venga un maestro che senza troppi grilli per la testa faccia arrivare in porto la nave, però siamo nel 2011 e di “Aide” se ne son sentite tante ma tante, dal vivo e in disco. Proprio facendo il viaggio verso Firenze, mi sono ripassato due storiche Aide del Covent Garden, una diretta da Beecham un'altra da Barbirolli, e in entrambi i casi si notava nettamente la “concertazione” che dominava sulla aurea routine di Mehta. Ciò emergeva soprattutto in alcune scene topiche: il duetto delle rivali nel II atto, la scena del Nilo, la tomba e il finale.
M.Berti (Radames)
Per quanto riguarda le voci, devo assegnare la mia personale palma d'oro a Marco Berti, un tenore che passo passo è arrivato ai ruoli più impegnativi della sua gamma, dotato di una voce bella, sonora e squillante, ciò che occorre per un Radames più che plausibile. Nel IV atto e , a tratti nel III, ha aggiunto ai toni sonori e corposi anche i “colori” che Verdi, esigentissimo, richiede. Comprese le mezzevoci nella zona alta del registro, e Berti lodevolmente le ha eseguite.
Hui He è un soprano lirico che cerca di 'drammatizzare' la sua vocalità, ma con intelligenza non esagera e gioca su delicati pianissimi e belle legature. Purtroppo, giunta ai “Cieli azzurri” del III atto cala di intonazione vistosamente sul do acuto e sul sib successivo. I cattivi direbbero “non ce la fa”. Poi si riprende e regala un ottimo IV atto, superando ogni ostacolo.
Bravissimo Ambrogio Maestri, tonante e dalla magnifica dizione scolpita, con un sol bemolle che ha riempito la sala del Comunale come facevano i cosiddetti “baritoni di una volta”.Inoltre è stato molto espressivo nei passi a mezzavoce “Ma tu Re , tu signore possente”, “Rivedrai le foreste imbalsamate”.
La D'Intino ha creato un bel personaggio, sempre molto partecipe e graffiante, ma ha la voce divisa in 3 registri: uno di petto per le note medio-gravi, uno centrale debolissimo, uno acuto ancora efficace. L'effetto complessivo non è gradevole: a tratti sembra che la cantante...parli. Però, ripeto: si è sforzata a creare un personaggio vero, sentito, e ciò è arrivato al pubblico che l'ha premiata con il maggior applauso.
IL basso Prestìa , in difficoltà sul fa acuto (“Folgore, morte”) , ha delineato un Ramfis autorevole e dalla dizione perfetta.
Molto bene la sacerdotessa della Di Tonno e il Messaggero , Saverio Fiore.
La regìa di Ozpetek? Non c'era. Non ho visto regìa. Ho visto entrate e uscite, schieramenti a mò di cartolina illustrata o foto di gruppo, tutti a guardare pubblico e direttore, addirittura Aida sorrideva cantando “Cieli azzurri” o “Numi pietà del mio soffrir”, Radames entrava nel IV atto per il duetto con Amneris insanguinato e prostrato da torture...???!!! Ma come: allora tanto valeva tagliare il duetto successivo con Amneris e la scena del Giudizio....se era già stato giudicato colpevole!!
Assente la regìa c'erano però le stupende scene di Dante Ferretti, un vero mago. E le luci di Maurizio Calvesi, perfette. Solo queste meritavano gli applausi del pubblico. |
Recensioni
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Domenica 24 Aprile 2011 10:52 |
Una Walchiria al Met . Verrebbe subito da chiedersi: a che punto siamo con il teatro di Wagner in un teatro in cui è obiettivamente più semplice allestire un'Armida o un Comte Ory? Siamo messi male, inutile nasconderselo. Se a Bayreuth la geniale concertazione di Thielemann ha dimostrato che si può ancora emozionare , al Met le cose sono andate in maniera diametralmente opposta.
Questa la locandina:
Levine sul podio del Metropolitan di New York punta tutto sulla forza e la veemenza della sua interpretazione ma resta una concertazione terribilmente superficiale, a tratti demotivata o addirittura equivocata in pieno (il finale, per esempio, pare la base per la giostra a Gardaland!). Il cast vocale (pur “stellare”) delude e lascia addirittura sbalorditi, per la tragica insipienza.
Se tralasciamo le ottime intenzioni di Jonas Kaufmann come Siegmund, fraseggiatore attento e musicista meticoloso, restiamo comunque in compagnìa di una voce forse non adattissima al ruolo del classico Heldentenor.
Appena sufficiente la Sieglinde di Eva Maria Westbroek, sostituita poi nel III atto da una modestissima Margaret Jane Wray.Vi lascio immaginare la grande frase del III atto com'è venuta fuori.
L'ingresso di Bryn Terfel e soprattutto di Deborah Voigt nel II atto è da ricordare come una nerissima perla: troppo chiaro e morchioso lui, afflitto da una fastidiosa “gnagnera” , addirittura imbarazzante lei nel famoso “Ho-jo-to-ho” trasformato in un traballante jodel e concluso da una risatina grottesca che fa subito pensare alla Maga Magò della “Spada nella roccia” di disneyana memoria. Ma la parte peggiore della Voigt non sono gli orridi acuti e le calate di intonazione, bensì la condizione disastrosa della voce nei centri....colà dove si canta. Una vera parodìa. Dopo 1 ora 35 minuti e 50 secondi dall'inizio del II atto abbiamo poi un'altra perla terrificante, degna di Dario Argento: “Geh' hin, Knecht!Kniee vor Fricka:meld' ihr, dass Wotans Speer gerächt, was Spott ihr schuf. -Geh'! - Geh'! “ e sul secondo “Geh!” , quando Wotan trafigge Hunding, Terfel emette lo stesso urlo lancinante che ben conoscono gli allevatori di maiali, quando sgozzano il malcapitato suino di turno. Questo NON è canto. Eppure sono certo che così facendo Terfel crede di essere un grande interprete, solo perché nessun Wotan ha mai fatto nulla del genere! E per fortuna, aggiungo.
Molto buono il gruppo delle Walchirie, anche se la Cavalcata che apre il terzo atto è un po' una baldoria nella esecuzione fin troppo allegrotta di Levine: come siamo lontani dalla favolosa concertazione di Thielemann a Bayreuth!
Arriviamo all'Addio di Wotan, altro topos della storia operistica: Terfel pare un oste di una birreria all'Oktoberfest non certo il marmoreo Dio wagneriano. Non un colore, non un suono che non risulti nasale e a tratti persino grottesco, quasi Wotan fosse un personaggio comico. Grida “LogA! LogA!” invece di “Loge! Loge!” denunciando una pronuncia invereconda e inaccettabile per il suo livello. Naturalmente la gloriosa chiusa “Wer meines Speeres Spitze fürchtet, durchschreite das Feuer nie! “ si smoscia in una serie di urla sgangherate, fino a strozzarsi sul “nie!” ….roba da pazzi. E questo è il “grande” Terfel? Un bluff assoluto.
Un capolavoro come la Walchiria non può essere conciato per le feste in questo modo.
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Sabato 23 Aprile 2011 09:32 |
Liegi
Un felice debutto quello di Fabio Armiliato, in quello che è giustamente considerato le role-fétiche per ogni tenore verdiano e direi, più in generale, per ogni tenore che voglia definirsi tale.
L'Otello di Verdi sbarca dunque a Liegi nella nuova produzione fortemente voluta dal suo direttore artistico, Stefano Mazzonis di Pralafera, che ne cura anche la regìa. Quasi interamente italiano il cast: con Armiliato la Desdemona di Daniela Dessì, lo Jago di Giovanni Meoni, il Cassio di Cristiano Cremonini, il Rodrigo di Luciano Montanaro, la concertazione di Paolo Arrivabeni. Un grandissimo successo per tutti, è bene dirlo in apertura, con continui applausi a scena aperta e un trionfo al termine della rappresentazione.
Essendo in restauro lo storico Teatro d'Opera della cittadina belga, la stagione viene realizzata all'interno del Palafenice....sì...proprio lui....acquistato direttamente da Mazzonis, dopo che per oltre un decennio la Fenice lo aveva noleggiato dal Circo Togni. La struttura è d'emergenza ma estremamente funzionale: un lungo palco sormontato dalle “americane”, cioé dal ring delle luci, la buca ricavata alla meglio per ospitare la grande orchestra, con un effetto acustico abbastanza buono che non richiede amplificazione alcuna.
Magnifico l'allestimento, con la regìa di Mazzonis che per fortuna è assolutamente rispettoso della drammaturgìa e dell'ambientazione tradizionale, con costumi stupendi firmati da Fernand Ruiz, tra i più belli che si siano visti in “Otello”, curati nei minimi dettagli e messi in risalto dalle luci che ne captavano ogni riflesso.
Fabio Armiliato opta per un Otello assolutamente “dentro” la parte, frase per frase. Raramente si assiste a una recita in cui l'immedesimazione scenica giunge a tali punti di vigore drammatico ed emozionale, al punto da far temere seriamente per l'incolumità della Desdemona. Il suo è un Otello vigoroso, passionale, in cui l'aspetto giovanile e baldanzoso prevale sulla versione crepuscolare, depressa, offerta da altre interpretazioni: un Otello che scatta come una molla fin dal primissimo sospetto, all'inizio del II atto, e che non cerca toni sommessi e disperati, ma piuttosto è incline a un canto diretto, veemente, con uno strettissimo legame tra parola e azione. Impressionante nell'Esultate iniziale, giocato senza risparmio, Armiliato cerca di scolpire ogni frase come fosse un monumento a sé stante, dando carattere e senso al fraseggio e ai colori richiesti da Verdi. Il primo, ma soprattutto il terzo e il quarto atto sono quelli in cui il tenore genovese trova l'acme della sua interpretazione, giungendo a un monologo (“Dio mi potevi scagliar”) e al “Niun mi tema” finale con una solidità e una carica drammatica di grande impatto emotivo.Se un piccolo rimprovero può essere mosso è quello di aver, soprattutto nel terribile secondo atto, allargato un po' troppo la zona centrale della voce, cercando toni ancor più corruschi e drammatici, quando sarebbe stato meglio invece giocare su toni più discorsivi e sfumati, onde superare con squillo e facilità tanti passaggi vocalmente impervii (“...amore e gelosia vadan dispersi insieme”, “della gloria d'Otello è questo il fin”, il duetto finale “Sì per ciel”, comunque risolti con baldanza). Ma sono cose che è l'esperienza e la consuetudine in scena che insegnano. Le repliche aiuteranno Armiliato a frenare il temperamento e a giocare d'astuzia , dosando le forze e distribuendole con sagacia. Va comunque ascritta una lettura molto intensa, da Artista con la A maiuscola, e sulla linea della grande tradizione italiana (si sente che Fabio Armiliato studia e conosce le importanti registrazioni del passato.
D.Dessì
Con estrema naturalezza l'esperta Desdemona di Daniela Dessì segue fedelmente il tracciato verdiano e gioca sulle delicate mezzevoci, sui pianissimi eterei, puntando su un personaggio remissivo e rassegnato al suo destino , come in fondo Desdemona è. Nei punti nodali, cioé nei grandi voli melodici dei concertati e dei duetti, la Dessì tira fuori le unghie e lo fa con intelligenza, senza mai forzare o uscire da una linea nobile e lirica. L'Ave Maria , il duetto del I atto e lo scontro violento del III sono il nucleo della sua interpretazione.
G.Meoni
Lo Jago di Giovanni Meoni è nobile, misurato, non indulge mai a “effettacci” e punta tutto sulla parola scandita, chiara, che privilegia quindi l'aspetto ambiguo e viscido dell'alfiere della “moresca signorìa” di Cipro. Una magnifica figura perfettamente in sintonìa con la coppia Armiliato-Dessì.
Molto buono il reparto dei comprimari e la prestazione di Coro e Orchestra dell'Opéra Royal de Wallonie, con il maestro Marcel Seminara a capo del Coro.
La compattezza e la varietà dei colori della compagine è assicurata dal lavoro meticoloso del direttore stabile, Paolo Arrivabeni, che oltre a garantire la precisione mantiene un ottimo equilibrio con il palcoscenico, non sovrastando mai le voci e scegliendo tempi sempre molto calibrati alle esigenze di ogni singolo interprete. Una lettura pulita, tersa, di grande impatto. Anche a lui sono andati i calorosi applausi del pubblico, al termine e all'entrata , prima del III atto.
http://youtu.be/ziPDAv6PxgQ |
News
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Domenica 17 Aprile 2011 13:13 |
Un flop clamoroso. Di pubblico e critica. Il Pierino e il Lupo
con Marco Carta voce recitante si rivela un autogol per il
Teatro Lirico. Oltre al mancato incasso, con le due logge
completamente vuote e la platea con molti posti liberi, le
recensioni dello spettacolo sono impietose.
Per l'Unione Sarda si salvano solamente il coro e
l’orchestra, mentre la lettura di Carta è definita "piatta e
senza intonazione, pericolosmante vicina ad un saggio
scolastico". La Nuova Sardegna parla di una "popstar
spaesata".
Commento:
Se fossi Carta querelerei chi mi ha scritturato.
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