Teatro dell'Opera gremito come per le grandi occasioni per l'Attila di Verdi , presentato in pompa magna con il nuovo allestimento di Pizzi e la concertazione del Maestro Riccardo Muti, entrambi -sulla carta- grandi esperti in materia. Almeno tre le grandi messe in scena realizzate da Pizzi nel corso della sua lunghissima carriera, innumerevoli le recite dirette da Muti un po' ovunque, dal Maggio Musicale Fiorentino alla Scala, persino al Met dove l'opera era pressoché sconosciuta.
Bisognerà ora fare una premessa per coloro che si avvicinano da neofiti a questo particolare repertorio. Attila è un titolo in cui il giovane Verdi profuse fiumi di buona musica, dall'intenso Preludio ai Cori,ai concertati, alcuni tra i più bei finali d'atto di tutta la storia operistica, ma anche arie e cabalette com'era in uso in pieno Ottocento, nel classico stile belcantistico derivante dal taglio delle opere rossiniane in primis e successivamente ripreso da Bellini e Donizetti. Verdi fu un amante e sostenitore assoluto del Belcanto, sarà bene ribadirlo: non mancò da studente le grandi prime scaligere, si entusiasmò per i trionfi canori di questa o di quell'altra virtuosa, visse in un'epoca in cui il successo di un autore dipendeva dalla messa in luce vocale e interpretativa dei solisti, fosse il soprano o il baritono, il tenore o persino il basso. In occasione di una ripresa di Ernani pregò l'amico Donizetti di inserire variazioni e puntature (i famosi acuti aggiunti al termine di una cabaletta o nel corso di una grande aria) per tutti i cantanti. Prassi normalissima che giustifica quindi i “da capo” scritti per ogni finale di scena,nonché i precisi segni dinamici posti da Verdi in partitura (la corona sulle pause orchestrali a significare cadenze o variazioni) e i frequentissimi accordi ribattuti che chiudono enfaticamente ogni “numero” ,quasi sempre sovrastati dall'acuto di prammatica. L'autore non aveva certo bisogno di ribadire la tonalità di do maggiore, tanto per fare un esempio, con una raffica di sol-do sol-do sol -do dell'orchestra, così...tanto per far baccano. Era evidente che tali accordi servivano di sostegno all'acuto del soprano o del tenore di turno...altrimenti l'autore avrebbe scritto una meravigliosa Coda, cosa che puntualmente avviene laddove Verdi (e gli altri) giudicavano ciò necessario.
Ora , fatte queste debite premesse di ordine belcantistico, notiamo un atteggiamento in Muti che ribalta questa situazione in favore...di sé stesso . Fatto che non dovrebbe stupire considerando la grande considerazione che il Maestro nutre per la sua immagine, ma che invece lascia basiti se si considera il luogo comune che vorrebbe Muti come “dispensatore unico e irripetibile delle sacre volontà dell'Autore”. Verdi in primis e l'Attila in particolare. Così non è. I da capo delle arie di Odabella, Foresto, Attila ed Ezio, vengono eseguiti da Muti tutti così come sono scritti, pedissequamente, senza una sola variazione e senza una sola puntatura acuta (a dire il vero, timidamente, il solo Nicola Alaimo ha aggiunto due noticine diverse nel da capo di “E' gettata la mia sorte”, così....per concessione divina). Il risultato è uno solo: quello di stancare i cantanti e di far apparire ogni cabaletta pesante e noiosa. Esattamente quello che Verdi non voleva, il contrario di ciò che una recita teatrale dovrebbe proporre. L'intera concertazione mostrava le caratteristiche ben note: un piglio paratoscaniniano , l'incalzare dei crescendi, l'esplosione dei fortissimi, con piatti, timpani, grancassa e ottavino in evidenza. L'accompagnamento delle arie generalmente ansioso e ansiogeno, la sensazione è quella di un respiro che manca o che viene mozzato in gola al povero cantante: una gabbia ritmica entro la quale doversi muovere alla “si salvi chi può”. I momenti migliori sono stati il Preludio dell'Opera e il concertato che chiude la scena di Papa Leone, sufficientemente misteriosa e cupa come Verdi esige. Lo sgabello elevato richiesto da Muti lo proponeva al pubblico in maniera sovrastante, tipo Stokowsky in “Fantasia” e l'atteggiamento era quello del “io ci sono” e l'Orchestra...pure.
Ne hanno fatto le spese soprattutto la Odabella affaticata di Tatiana Serjan, che pur con le unghie e con i denti ha cercato di restare a galla fino all'ultimo, con encomiabile sforzo. L a voce c'era fino alla sua terribile entrata “Santo di patria”, eternata da un memorabile disco di Joan Sutherland (quello sì entusiasmante) : la Serjan tende a gridare sugli acuti e soprattutto a spingere, quello è il suo guaio, ma se a ciò aggiungiamo l'accompagnamento implacabile, pesante a tratti, voluminoso oltre misura del concertatore, è facile rimetterci le penne e così di fatto è accaduto nella seconda parte dell'opera, in cui la Serjan si è presentata in difficoltà con l'intonazione e con metà della sua voce, che già non è tanta quando è tutta.
Un'altra vittima designata il tenore, qui era Giuseppe Gipali, costretto a giocare perennemente sulla difensiva. Voce di suo non grande, più adatta a repertorio leggero, umiliata dal confronto con il grande Antonello Ceron (magnifico Uldino), è rimasto travolto dai flutti sonori della cabaletta “Cara patria” ma anche ha sofferto nei duetti ed è sparito nei concertati, dove l'effetto “pesce” ha fatto pensare a una totale afonìa.
Le cose sono andate decisamente meglio con Ildar Abdrazakov, basso di bellissima voce e di sicura resa musicale, che però-a mio giudizio- non possiede esattamente la caratura specifica verdiana: mi pare più una perfetta vocalità rossiniana, troppo spesso la voce risulta leggera, senza le classiche arcate di fiato richieste da frasi come “e l'alma in petto ad Attila si agghiaccia pel terror” e con note basse non troppo sonore. Tuttavia la bellezza del colore e la grande interpretazione lo hanno aiutato a sostenere il ruolo e a uscirne con un egregio risultato, doppiamente bravo considerando la battaglia per superare quel muro orchestrale e la baldanza tonitruante del Coro.
Meglio ancora il baritono Nicola Alaimo, che si è presentato in gran forma, con recitativi scolpiti e nitidissimi e una cantabilità sempre molto calibrata nel legato e sicurissima nella zona acuta. Splendido, ad esempio, il difficile sol acuto di “la patria leverà” nel recitativo accompagnato che precede l'aria “Dagli immortali vertici”. A questo si aggiunga l'imponenza del personaggio e la maschera, davvero impressionante in quanto a espressione e forza interiore. Mi permetto solo di suggerire a questo giovane cantante una maggior attenzione all'omogeneità del suono su tutte le vocali, ogni tanto ha la tendenza a mollare il fiato su qualche “e” o a schiarire troppo qualche “a”, con l'effetto di interrompere la bellezza del flusso sonoro e del colore baritonale.
Magnifiche le frasi di Luca Dall'Amico come Papa Leone. La sua apparizione, in fondo alla scena, mi ha fatto pensare che si trattasse dello stesso Pizzi, tale era la somiglianza. Poi, udita la sonora voce di basso (persino più sostanziosa rispetto a quella di Attila) ho capito che non era lui.
Veniamo allo spettacolo di Pizzi. Grigio era il colore dominante. Grigia la scena, un muraglione a mò di saracinesca di garage che separava il proscenio, rialzato, da una riproduzione parziale della Basilica di Massenzio, anch'essa grigia e bianca, grigi i praticabili, appena interrotti da quattro gradoni bianchi in finto marmo, grigi e nerastri i costumi dei coristi, fossero Unni, Eruli, Ostrogoti o indifferentemente Eremiti. Un impianto imponente ma francamente non bello: già visto mille volte in tante Tosche (l'ultima di Bondy ma anche quella di Miller a Firenze nel lontano 1991) o nel Tristano alla Scala di Patrice Chéreau, con i luoghi comuni che si ripetono implacabili e taluni effetti evitabili: il su e giù della saracinesca o dello spaccato della Basilica alla lunga stancano e non regalano alcuna emozione. Un allestimento che poteva andar bene per almeno altri 10 titoli ed è questo il nostro suggerimento: che venga almeno utilizzato per qualche prossima Norma, Don Giovanni, Nabucco, Tosca. Almeno si risparmia. Circolano parecchie voci sui costi di questo allestimento , certamente assai oneroso: mi chiedo come possano essere sperperati tanti soldi quando eliminando uno zero dal budget si sarebbe potuto fare assai meglio e con maggior fantasia. In un momento, poi, di grave crisi per tutti e per il teatro d'opera in particolare. Tutto ciò non aiuta i nostri politici a evitare i famigerati tagli e il concetto della “cultura vista come spreco di danaro pubblico”, anzi....incentiva.
La regìa di per sé si limitava a far entrare e schierare il Coro davanti al concertatore, Odabella aveva dall'inizio alla fine dell'opera la spada in mano (pessima l'uccisione di Attila, palesemente fasulla....ma dico: con tutte le prove che si avevano a disposizione???), Ezio troneggiava , Attila si agitava in vestaglia rossa ed era l'unico, in fondo, che cercava di dinamizzare il suo personaggio, a metà strada tra Don Giovanni e Mefistofele.
Orchestra e Coro hanno dato il meglio di loro stessi, con una nota di particolare merito per il mitico ottavino di Lorenzo Marruchi.Un bel successo per tutti ma non al livello del concerto di Juan Diego Florez della sera prima, a Santa Cecilia.
Un regista per essere considerato “à la page” deve:
1) Ambientare l’opera nel presente con tanto di riferimenti a guerre, nazismo, attentati, condizione terzomondista, inquinamento, malattie incurabili o meglio ancora in uno spazio vuoto o astratto, oppure in una casetta lignea/ferrosa/vetrosa o stile Bauhaus, meglio ancora in un bunker o ospedale, oppure nel consolidato “teatro nel teatro”, oppure proporre la vicenda all’epoca del compositore con riferimenti alla sua biografia o all’ambiente a lui più congeniale: Rossini in gastronomia, Donizetti in un casino, Prokofev nella Mosca del compagno Berja, etc.., smentendo la componente storica del libretto, per essere più vicina al pubblico, ai giovani e “svecchiare le incrostazioni”. La scena è consigliabile fissa, al massimo dotata di mobilio stile “Secessione” e piano ruotante. 2) Fare indossare cappotti di varie fogge, ma di colori neutri o spenti o abiti candidi. 3) Mostrare pettorali, seni, pudenda maschili e femminili, deretani. Questo è un obbligo morale! 4) Inscenare almeno una sequenza di stupro, un’orgia, una di maltrattamento verso animali e verso donne, trattate ovviamente come buchi da riempire o poco più. Climax obbligatorio la scena in cui ci si droga o ubriaca. 5) Far capire, lentamente, che tutto ciò che avviene in scena è il sogno, oppure una pura follia, oppure la proiezione psico-freudiana-junghiana del protagonista fragile e complessato. 6) Riconoscere che la borghesia e la chiesa sono le vere piaghe sociali: tutti siamo puttane, spacciatori, ipocriti, sessuomani dai gusti estremi, drogati, infidi, omosessuali, transessuali, maniaci sessuali, serial killer, rissaioli, violenti, mostri schizofrenici, ossessionati dal denaro e dagli oggetti, MA in fondo falsi perbenisti baciapile con un cuore d’oro e crocifisso in tasca vittime della ruota del sistema dipinto come un tirannico regime fascistoide “che schiaccia l’individuo sotto la pesante ruota del totalitarismo armato e guerrafondaio”. Tutto questo va denunciato e sbeffeggiato. 7) Trasformare, ad un certo punto dell’azione il/la protagonista in una puttana o in un alcolista/drogato; meglio se tutti e tre contemporaneamente. Ergersi a essere pensante superiore e ben più intelligente del librettista e del compositore; QUINDI occorre sovrapporre una propria versione dell’opera a quello che banalmente già si conosce; il finale va ovviamente stravolto. 9) Utilizzare SOLO gelide luci di taglio, oppure al neon in puro stile “asettica corsia d’ospedale” o meglio “sala settoria di anatomia patologica”, oppure di un accesissimo color pastello o stile “corto circuito” da integrare ad un abbondante uso di proiezioni che non c’entrano praticamente nulla con ciò che avviene in scena, e il cui unico scopo è scatenare una guduriosa sega mentale nei fans del regista. Ancora meglio se la scena piomberà in un buio abissale in cui ognuno possa immaginare ciò che vuole. L’accensione delle luci in sala durante la recita fa parte degli imperscrutabili obblighi morali di cui sopra. 10) Costringere i cantanti per 2/3 dell’opera a cantare sdraiati a terra, o in posizioni ginecologiche, o da contorsionista, per improvvisa depressione o perdita del controllo delle gambe o schiaffo/pugno/calcio o innamoramento. 11) Rappresentare il coro come un unica massa perversa, omogenea e giudicante il cui scopo è sghignazzare e far rumore durante la musica. 12) Prima dell’opera o di un atto integrare 20 minuti circa in cui denunciare un male della società o ridicolizzare il pubblico attraverso azioni insensate con l’utilizzo di ballerini, mimi travestiti da animali (meglio se esotici o scimmieschi), attori che reciteranno testi astrusi. 13) Risolvere il balletto, se previsto, come un sogno nel sogno, un incubo, una scena di tarantolati oppure con uno spargimento di sangue. 14) Sdoppiare o centuplicare uno o più personaggi attraverso un uso insistito di mimi e ballerini per confondere meglio le idee e l’azione: tutto ciò è molto intellettuale. 15) Inserire almeno una scena con uno specchio gigantesco, dritto o inclinato, che raddoppi e deformi le azioni e “permettere al pubblico di entrare nella scena facendone parte, rispecchiandosi nelle azioni narrate”. 16) Inserire OBBLIGATORIAMENTE un letto in scena che dovrà essere onnipresente e fulcro dell’azione, concentrando su di esso tutte le svolte sconvolgenti dell’allestimento; esso andrà ovviamente tolto allorché il libretto ne preveda un espresso utilizzo. 17) Sostituire le parti recitate nell’Opéra Comique con un testo scritto di proprio pugno il cui linguaggio deve essere crudo, brutale, volgarissimo a abbondare di parole come “Bitch, Putaine, Whore, Motherfucker, Bullshit, Fuck, Cock, Pussy, Asshole, Faggot” e delizie simili, perchè fa gggiovane, iconosclasta e tanto “scandaloso”. 18) Affermare che il testo del libretto sia una zozzeria indecente, che non si comprende il perchè un raffinato compositore sia stato attratto da una robaccia del genere, anacronistica all’epoca e lontana dalla nostra “sensibilità moderna” e giustificare il tutto inventandosi complessi, sindromi e traumi infantili che il poveraccio di turno ha subito da bambino. Il risultato per dare nuova linfa a queste “datate insensatezze”? Il compositore dovrà apparire in scena in maniera goffa, infantile e spaesata e interagire timidamente con i personaggi che ha creato. 19) Sostituire le scene che prevedono ambientazioni naturalistiche vicino a fiumi o foreste con discariche, fogne o strada malfamate e popolate da topi giganti, puttane, trans, gay, pervertiti, spacciatori, boss mafiosi e ladruncoli. 20) Trasformare in feticcio imprescindibile i lampadari, i capelli sporchi, le pistole, i vestiti laceri, le ferite in volto, ma soprattutto gli anfibi per i personaggi “giovani”. 21) Invadere la scena con acqua, che tra uno schizzo e l’altro si trasformerà in una fanghiglia ripugnante, oppure con della sabbia così da impedire ai cantanti ogni più naturale movimento; il che si tramuterà nella mente del critico illuminato come “la materializzazione attraverso elementi naturali della fragilità, delle difficoltà e dell’ inutilità delle umane miserie e delle contraddizioni dell’anima”. 22) Far diventare protagonista assoluto della scena, al pari del letto, un gabinetto (una moltitudine sarebbe ben più auspicabile) il cui significato saranno i critici colti, che vanno in sollucchero per i sanitari, a svelarlo. 23) Permettere ad uno o più personaggi di accedere al palcoscenico entrando dalla platea a opera iniziata; se il
cantante lo fa correndo, o sghignazzando, o in stato di delirio è meglio. 24) Tagliare o modificare arie o recitativi adattandoli al proprio allestimento o al proprio gusto personale giustificando lo scempio come “una operazione necessaria e culturale volta a rendere più fruibile, immediata e non distante dal gusto odierno del pubblico una vicenda francamente ridicola, poco credibile, invecchiata e fuori moda”. 25) Beccarsi sorridendo fischi e contestazioni: ciò rappresenta il personale trionfo e la conferma che il pubblico è ignorante, stolto, ipocrita, incivile, ha una sessualità repressa e vissuta in maniera malata, e, peccato mortale, non vive di “seghe mentali”, mentre Egli è secondo per onnipotenza e onniscienza solo dopo al Creatore!