Martedì 05 Aprile 2011 22:02 |
A.Netrebko-E.Garanca
Anna Bolena di Donizetti da Vienna e trionfa il Duo Merveille costituito da Anna Netrebko con qualche chiletto in più ed Elina Garanca . Con due bellezze così sul palcoscenico ti sei pagato il biglietto e questo vale soprattutto in un'opera spesso, purtroppo, retaggio di figure non certo fascinose.
L'opera viene presentata in versione mutilata: troppi i tagli voluti dal direttore Pidò, che però fa scorrere lo spettacolo senza ulteriori intoppi.
Belle, sinuose, partecipi le primedonne da copertina: l'acme viene raggiunto nel grande duetto Anna-Seymour ma grandi applausi si prende la Garanca nel secondo atto, disinvolta e aristocratica come una fuoriclasse deve essere. La Netrebko sale con facilità al do e persino al re sopracuto, ha temperamento da vendere e vince nelle cabalette più che nelle arie, dove denuncia ogni tanto qualche fiato corto e parecchie note ingolate. Cade nell'aria più attesa, “Al dolce guidami”, dove la micidiale cadenza la vede stonare clamorosamente e restare senza fiato: alla Scala sarebbe stata fischiata senza pietà, a Vienna passa con le ovazioni. Ma il colore è bello come lei e il personaggio finalmente credibile.
Ildebrando d'Arcangelo rappresenta un efficace re Enrico , anche se talvolta un po' morchioso.
Il tenore Francesco Meli è quello che avrebbe i mezzi vocali più cospicui e più doviziosi ma è costretto ad arrangiare la parte alla meno peggio da una tecnica che, purtroppo, non ha risolto l'atavico problema della salita oltre il fa diesis : da quella nota in su Meli stringe la gola e non riesce che a raggiungere, spingendo e sudando, note che tutt'al più potrebbe emettere un baritono brillante.Dove sono gli acuti e i sopracuti di Percy? Ma soprattutto: quale destino vocale attende Meli, in prossimità d'un temibile Trovatore? Non nascondo una serissima preoccupazione e mi auguro che questo giovane e valente artista sappia rivedere alcune cose del suo assetto tecnico.
La regìa è nella più assoluta linea di tradizione, con bei costumi ma una certa staticità generale, appena ravvivata dall'impegno scenico del quartetto protagonista.
L'applausometro segna il massimo successo per la Garanca, subito seguita dalla Netrebko, poi D'Arcangelo, Meli e gli altri.
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Sabato 19 Marzo 2011 10:47 |
I VESPRI SICILIANI
TORINO , TEATRO REGIO
Non sono mai stato un fautore delle regìe stupide, cioé iconoclaste solo per il gusto di provocare , ma sono completamente a favore delle regìe che esprimono delle idee e le realizzano con coerenza. I “Vespri siciliani” di Verdi allestiti al Teatro Regio di Torino , in occasione del 150mo anniversario del Regno d'Italia (e non dell'Italia Unita, come stoltamente si legge un po' ovunque!), sono il pregevole risultato di un lavoro fatto PENSANDO e ne è autore il regista Davide Livermore, che ha scelto la via dell'attualizzazione.
E' una strada spesso pericolosa ma non necessariamente più difficile: è sempre molto più complicato rappresentare un'opera lirica nei tempi originali e con i costumi previsti dal libretto, immaginate poi i “Vespri siciliani” anno 1282, così come viene per esempio effigiato nel celebre quadro di Hayez.
Calzamaglie, berretti, alabarde, siamo sinceri: più semplice e familiare la Sicilia di Falcone e Borsellino che quella di Carlo I d'Angiò!
Noseda e Livermore in scena
Ma il lavoro meticoloso e variegato di Livermore non è semplice affatto: l'intento finale del regista ci è parso quello di denunciare apertamente le condizioni generali dell'Italia oggi, partendo dalla strage di Capaci (1992) e arrivando alla Tv trash delle veline, dei commentatori cinici , del gobbo che colma il vuoto delle idee, della politica e dei poteri forti fatta di maschere di gomma, ipocrite e tragiche. Livermore corre un solo rischio, quello di sorvolare sulla trama in sé dei “Vespri” che, com'è noto, riduce la rivolta siciliana all'ultimo minuto della lunghissima opera mentre incentra tutto sulla vicenda amorosa della duchessa Elena , sorella di Federigo d'Austria, con il giovane siciliano Arrigo, figlio del governatore francese Monforte.
Non è semplice tenere le fila di questo racconto, così fortemente melodrammatico e diciamolo pure assai poco spettacolare: funziona meravigliosamente la perorazione di Elena nel I atto, che rievoca l'eroica figura della vedova Schifani. Livermore riesce a rendere coerente ogni frase del testo , laddove l'incitazione alla rivolta dei siciliani sembra esattamente riprendere il pensiero disperato della vedova :” ...qui non esiste l'Amore...non c'è più l'Amore...” . Frasi che purtroppo sono scolpite nella memoria di ogni italiano. Un altro straordinario momento è la trasformazione della tarantella , citata da Verdi, in un tragico ballo fatto dalle maschere di gomma, quelle che ci circondano e che ogni giorno vediamo sfilare a Ballarò, a Porta a porta, ad Anno Zero.
I problemi nascono nel III e IV atto e qui l'idea di Livermore viene penalizzata dal carattere di feuilleton imposto dal libretto di Arnaldo Fusinato. Sì, c'è la mafia, c'è il carcere, c'è Monforte che supplica Arrigo di riconoscerlo come padre affettuoso, c'è il basso Procida, a metà strada tra un rivoluzionario e un picciotto....ma lo spettacolo si ferma, o meglio, subisce una brusca frenata e per fortuna che la splendida musica di Verdi aiuta a colmare ogni eventuale “buco”. Nel V atto Livermore ritrova il filone giusto e riesce, con somma ironia, a cogliere l'aspetto frivolo e anche disincantato del matrimonio tra Elena e Arrigo: il famoso Bolero (“Mercè dilette amiche”) diventa un'intervista della Diva, con tanto di cronista ebete , il finale propone invece la rivolta del popolo-bue che si toglie la maschera e grida “Vendetta!” , mentre sul fondale appare il monito costituzionale sul popolo sovrano. Insomma, per la celebrazione del 150mo del Regno d'Italia uno spettacolo degno, ragionato, denso di importanti significati.
Magnifico il cast e considerando che siamo davanti a una delle opere musicalmente più difficili di Verdi, c'è davvero da esultare. Porrei in primis il basso Ildar Adrazakov, sontuoso e musicalissimo Procida, di splendido timbro e magnifica vocalità:a lui la palma del migliore in campo. Gregory Kunde non gli è stato da meno: dopo una lunga carriera rossiniana e belcantistica, giunge al tremendo ruolo di Arrigo con sicurezza tecnica e un perfetto aplomb interpretativo. Qua e là qualche opacità e un po' di stanchezza , assolutamente lecite, ma l'aria , i duetti, il terzetto, i concertati sono risolti da grande professionista e con un impeto che non ritroviamo in molti conclamati tenori verdiani. Nel V atto Kunde esegue il re del duettino con un corposo falsettone, esattamente come si faceva ai tempi di Verdi, e interpola un do al termine del terzetto con Elena e Procida, nota un po' fissa e forse inutile in questo contesto.
Elena era Maria Agresta, che ha rimpiazzato una indisposta Sondra Radvanovsky . Mi è piaciuta molto, nonostante qualche incertezza nel finale dell'aria “Arrigo, ah parli a un core”, in cui per mancanza di appoggio un paio di note si sono incrinate: la Agresta vinse Spoleto nel 2006 e si è in seguito perfezionata con Raina Kabaivanska, che dei “Vespri” fu interprete proprio a Torino, con la regìa di Maria Callas, nel 1973. Una voce molto omogenea , intonata e squillante nel registro alto, sufficientemente agile per risolvere l'aria d'entrata e il Bolero. Deve solo sciogliersi come attrice e pensare più al personaggio, all'espressione.
La Radvanovsky ha cantato , come ho saputo, non bene alla Prima, il 16 marzo. Dalle immagini e dai suoni proposti da RaiStoria , riferiti alle prove, l'ho trovata molto mal messa, con suoni a volte gridati e poco intonati, afflitta da una vibrazione continua (nonostante Noseda le gridasse, mentendo :”Bravissima! Magnifica!” ….ah, la bugìa pietosa ai maestri è concessa, per parafrasare Traviata). Spero si riprenda al più presto, ma ho l'impressione che questo stato di forma non sia dovuto a raffreddori o mali di stagione, piuttosto a uno stress vocale e a un repertorio probabilmente troppo oneroso a fronte di precisi limiti tecnici non totalmente risolti.
Il baritono Franco Vassallo non è andato al di là di una prova decorosa, onesta. Ma la voce ha delle disuguaglianze improvvise, ora troppo chiara ora ingolfata nel tentativo di renderla più scura e imponente. Assenti le mezzevoci, che pur sono richieste nell'aria “In braccio alle dovizie”.
Di grande livello la concertazione del maestro Gianandrea Noseda: limpida, pulita, chiara, robusta ma mai enfatica, tempi giusti. Solo nell'ultimo atto, il terzetto è andato un po' a ramengo, causa la stanchezza generale e una perdita di concentrazione. Per il resto un'orchestra del Regio in forma smagliante, e così il Coro, che ha recitato la difficile regìa con grande partecipazione e bravura. Non esito a definire il Regio di Torino, oggi, il miglior teatro d'opera italiano.
Successo calorosissimo da parte del pubblico. |
Giovedì 10 Febbraio 2011 18:11 |
Novità in DVD:
SIMON BOCCANEGRA di VERDI
DOMINGO\ Pappano EMI CLASSICS
Compie 70 anni Placido Domingo e la Emi Classics fa uscire il “Simon Boccanegra” , uno dei tanti, eseguito dal grande tenore al Covent Garden sotto la direzione di Pappano, lo scorso anno. E' un omaggio al Tenore, non v'è alcun dubbio: poiché non vi è una sola nota o frase di tutta la partitura che Domingo esegua da baritono. Lo abbiamo più volte detto e scritto: Domingo è e resta tenore, nonostante l'età e una lecita paura ad affrontare ruoli nei quali non reggerebbe più né il peso né il confronto con sé stesso gli suggeriscano ormai personaggi esclusivamente baritonali. Dall'entrata nel Prologo alle ultime note Domingo canta la parte di Simone da tenore, con una voce piuttosto chiara e schiacciata sulle “e” e sulle “i” , come ha quasi sempre fatto, assicurandosi con questa emissione rino-faringea una lunghissima, ineguagliabile carriera. Certo, è Domingo: le frasi sono cantate con giusti accenti, con buon legato, con il famoso “senso della parola” che molti più illustri vocalisti non hanno mai avuto. Però non è Simon Boccanegra questo: è Domingo che si arrangia alla meglio, è un compromesso, un ibrido che non rende giustizia a uno dei ruoli topici per ogni grande baritono, quasi uno scherzo o se si preferisce un capriccio.
Il fatto più grave è che proprio Domingo, giustamente famoso per la sua musicalità, sia costretto a cantare tutto forte , senza mai poter alleggerire nelle molteplici mezzevoci richieste da Verdi.
Scenicamente il personaggio c'è, i costumi son ben indossati, l'allure è quella del fuoriclasse.
Intorno a Domingo fiorisce un giardino di mostri, direi proprio Il Club dei Mostri.
J.Summers
Comincerei dallo spaventoso Jonathan Summers, che impersona un grottesco Paolo Albiani: un misto tra Don Magnifico e Tonio lo Scemo, una caricatura di quello che dovrebbe essere il viscido traditore.La vocalità è degna delle sue comiche movenze.
Marina Poplavskaja, il soprano che canta Amelia, è per me un mistero che può spiegarsi soltanto se si indagasse sul fronte “gossip”: cosa che non farò, limitandomi alla sua prestazione artistica. Che è scandalosa: brutta la voce, senile e rinsecchita, brutta la tecnica, con frequenti perniciose ingolature e suoni spoggiati ai limiti dell'udibile, brutta l'intonazione, sempre oscillante e traballante, e bruttina pure lei, che nei primi piani sembra aver ingoiato due ferri da stiro, uno per mascella.
Entra Gabriele Adorno, il tenore, e come per un terribile incantesimo fa il suo ingresso il sosia di Giuseppe Morino, colui che fu il Re del Belcanto nelle mitiche stagioni di Martinafranca. Re...si fa per dire: era famoso per i suoni belanti e sconclusionati, sino ai sopracuti più incredibili. Si chiama anche lui, ironia della sorte: Joseph, di cognome Calleja.
La voce vibra e sembra continuamente trillare,a volte si fa bianca e spoggiata, in altri casi grida, in altri parla...una parodìa per un ruolo che è stato definito “il piccolo Otello”, cavallo di battaglia di tutti i tenori lirico spinti di stampo verdiano.
La galleria si completa con il basso Ferruccio Furlanetto, che - non ne capisco la ragione- spinge il pedale su ogni sillaba, accentando e spezzando le frasi legate (“ A tte l'esttre- mo aDDDio, ppa lla ggio altero, fre Ddo sePPol cro...” ec.) assumendo il tono di un vecchio brontolone, a metà strada tra Don Bartolo e Don Pasquale.
Questo spiacevole ensemble è ulteriormente imbruttito dalla regìa statica di Elijah Moshinsky , dalle scene di Michael Yeargan che vorrebbero essere tradizionali ma sono soltanto ingombranti. Meglio i costumi di Peter Hall.
Sul podio Pappano. La sua concertazione è ottima , sia per la scelta dei tempi che per il gioco dei colori, peccato solo che l'orchestra del Covent Garden sia frequentemente stonata (addirittura indecente nell'introduzione all'aria di Amelia “Come in quest'ora bruna”) e che quindi venga spesso vanificato il lavoro del maestro concertatore.
Discreto il Coro. |
Sabato 05 Febbraio 2011 10:36 |
Elisir d'amore all'Opera di Roma, un gradito ritorno di uno dei capolavori del repertorio operistico, un ottimo successo, una serata piacevole nonostante la funesta notizia del ricovero a Chicago del Maestro Muti, colto da malore mentre provava un impegnativo concerto sinfonico. Nel formulare i nostri personali auguri di pronto ristabilimento al Maestro, in attesa di rivederlo sul podio romano il 17 marzo con “Nabucco”, non possiamo non notare che anche in questo “Elisir” l'impronta mutiana è notevole. Del resto , il vicepresidente del Consiglio d'amministrazione del Teatro, Bruno Vespa, tra un Porta a Porta e l'altro, ci aveva annunciato che ogni “ordine” del Grande Maestro Muti era stato rispettato alla lettera: dalla nomina del suo fido direttore artistico Alessio Vlad, alla rimozione della Fracci in favore di Misha Van Hoecke quale direttore del corpo di ballo, alla nomina di Roberto Gabbiani in luogo del povero Giorgi, che di crepacuore passò all'altro mondo , alla nomina di Filippo Arriva quale ufficio stampa in vece del pur ottimo Sappino, fino alla scelta dei titoli, dei registi , dei direttori d'orchestra e di gran parte dei cast, come si deduce anche da questo “Elisir”.
Elisir d'amore, Roma 2011
E' dal programma di sala che scopriamo i “sottili” legami, per esempio, con il regista Ruggero Cappuccio, napoletano, che nel 1999 debutta in opera con la “Nina” di Paisiello, diretta alla Scala da Riccardo Muti;ancora nel 2001 è sua la regìa di Falstaff a Busseto, sul podio Muti;ed è Chiara Muti, figlia del Maestro, nel cast dell'”Orlando furioso” presentato all'ETI , sempre nel 2001, o in “Desideri mortali” , oratorio profano di Tomasi di Lampedusa, eseguito a Palermo nel 2008, o nell'opera “Natura viva” di Betta presentata al Maggio Musicale Fiorentino nel 2010. Insomma: Cappuccio e Muti, Muti e Cappuccio...
Se poi prendiamo un compasso, che vicino ai cappucci stanno benissimo, e proviamo -sempre partendo da Muti- a tracciare delle linee....scopriamo che il maestro Campanella è un altro fraterno amico del Maestro.Nulla di male, per carità....nella grande loggia dell'Opera c'è posto un po' per tutti e Campanella è uno specialista del repertorio donizettiano. Le linee si intrecciano e si irradiano, come i raggi di un grande Sole: il costumista, Carlo Poggioli, firmò i costumi del Falstaff, della Nina e persino di Don Calandrino a Salisburgo, tutti spettacoli voluti e diretti da Muti.
Elisir, Roma 2011
Veniamo al cast, anche qui non ci vogliono cappucci o compassi, è abbastanza evidente:
Adriana Kucerova, l'avvenente Adina, è una pupilla del Ravenna Festival, avendo ivi cantato con il Maestro Muti, così anche l'Adina del secondo cast, la bravissima Rosa Feola, che cantò “I due Figaro” di Mercadante a Salisburgo, ancora una volta con il Maestro Muti.
Va bene, no problem. Finché c'è la salute....diceva Totò.
Lo spettacolo, si diceva all'inizio, molto piacevole, garbato, con punte di eccellenza nel cast maschile. Saimir Pirgu, il più giovane della compagnìa, musicalissimo ed elegante come Nemorino, sulla scìa dei tenori di grazia alla Luigi Alva: perfetta la sua caratterizzazione, prodiga di colori e smorzature raffinate, con una “Furtiva lagrima” di grande levatura e un bel do alla fine del duetto con Belcore, tutto ciò unito a una piacevole presenza scenica e a una notevole disinvoltura attoriale. Un protagonista ideale, con la voce che risuonava sonora in tutto il teatro.
Saimir Pirgu
Molto bene anche il giovane Dulcamara di Alex Esposito, un vero attore-cantante, che la regìa ha voluto come una sorta di mago, di genio della lampada. Esilarante l'ingresso, con Dulcamara minuscolo, avvolto in un mantellone che nascondeva le gambe piegate, tale da farlo apparire come un nano grottesco. Un grande prova di bravura unita a una vocalità che, seppur non estesa (gli acuti sono risultati un po' “stretti”) , è risultata sempre autorevole e perfetta nella dizione.
Alex Esposito
Ottimo il Belcore di Fabio Maria Capitanucci, tronfio e molto sonoro nell'ottava centrale, perfetto in scena. Consiglierei a questo bravo baritono di non lanciarsi, però (come leggo nel curriculum) in opere verdiane abbastanza pericolose, visti i piccoli problemi che si notano sul registro alto (gli acuti tendono ad andare un po' indietro, con un movimento della testa che accompagna ) e di insistere piuttosto su Mozart e Rossini, sistemando man mano la tecnica.
Purtroppo il reparto femminile non era all'altezza, una tantum, dei colleghi uomini.
Adriana Kucerova
La Kucerova è molto graziosa, si muove in scena come una ballerina, è disinvolta , la voce è carina, le note ci sono quasi tutte (qualcuna ne ha saltata nella cabaletta finale “Il mio rigor”)...ma i mezzi sono piuttosto limitati. Fiati corti, note basse quasi inesistenti. Adina è una parte classica di lirico di agilità, ciò vuol dire che si richiede una voce decisamente più sostenuta e non evanescente, a tratti spoggiata, come quella della cantante slovacca. E poi, quando l'orchestra cresce di intensità (nei concertati soprattutto), non si può essere totalmente travolti.
Molto male vocalmente la Giannetta di Erika Pagan, che deve assolutamente aggiustare l'emissione per non risultare petulante .
Lo spettacolo di Cappuccio presentava una scena estremamente stilizzata, un po' onirica, in carta da zucchero: semplici quinte decorate, un fondale con il paesino accennato da casette bianche tipo Ostuni, un paio di tavolini bianchi, alcuni ingombri di plastica illuminati da luci ora bianchissime ora tenui e soffuse. I personaggi erano molto attivi e danzanti, per lo più:Dulcamara, si è detto, un genio della lampada con tanto di treccione e pantaloni alla zuava, Nemorino un signorino di campagna in gilet, Adina una damina tipo Musetta, Belcore in divisa classica con appena due soldati-mimi al seguito. In più saltinbanchi e funamboli, tra cui una bravissima ragazza che si arrampicava su un lungo drappo rosso e volteggiava in aria nella “Furtiva lagrima”.
Il Coro, nonostante qualche tentativo di ballo e lo sventolìo di qualche bandierina, era piuttosto statico.
Il maestro Campanella ha scelto una strada opposta alla disincantata e ingenua allegrìa dello spettacolo e , costretto a far suonare l'orchestra piano o pianissimo soprattutto quando cantava Adina, ha dato l'impressione di tenere il freno tirato, il contrario esatto di talune esilaranti recite di Don Pasquale o Figlia del reggimento, di cui Campanella è specialista. Così , ogni tanto, l'orchestra risultava non solo sottotono, ma talvolta imprecisa e spesso moscia, demotivata. Lo stesso Coro era abbastanza irriconoscibile dall'ultimo Moise ed è clamorosamente andato fuori tempo nel finale del I atto.
Da registrare un bel successo, con molte richieste di “bis” dopo la grande aria di Nemorino: trionfo per Pirgu, per Esposito e per Capitanucci, meno applausi ma comunque abbastanza per Adina e Giannetta, consensi al direttore e ai responsabili dello spettacolo. Una delle rare volte in cui il regista non viene fischiato: per molti è un brutto segno.
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