Giovedì 22 Novembre 2012 17:38 |
Di recente, confesso, ascoltando parecchie incisioni , mi ero riconciliato abbastanza (non del tutto) con gli strumenti cosiddetti “originali” (perchè originali non sono, si sappia, essendo costruiti oggi, con vernici attuali, legni attuali e corde attuali). Talune esecuzioni a opera di complessi formati da ottimi musicisti e guidati da altrettanto preparati maestri mi avevano convinto, sia per la brillantezza e la vivacità delle concertazioni, sia per lo scupolo belcantistico di molti interpreti, magari non dotati di mezzi eccezionali ma stilisticamente preparati , in grado di ricreare esecuzioni teatrali. Ieri sera , all'auditorium di S. Cecilia, ascoltando il Flauto magico diretto da René Jacobs e dal suo gruppo “Akademie fuer Alte Musik Berlin” , ho capito il perchè di quella riconciliazione: tutto merito dei dischi.
Nei dischi questi gruppi sono intonati, precisi e la confezione garantisce una qualità, se non proprio entusiasmante, per lo meno curata. L'intonazione è dovuta alla postproduzione dei dischi medesimi: grazie a raffinatissimi softwares e alla presenza di eccezionali tecnici del suono, anzi “architetti del suono”, ogni minima sfasatura viene magicamente riaggiustata. Prodotti di laboratorio, ed è anche giusto che sia così perchè , in quanto dischi, vanno ai posteri.
Ma l'ardua sentenza tocca a chi segue questi gruppi dal vivo, non ai posteri. E la sentenza è di assoluta condanna, per quanto mi riguarda.
Quello che ieri sera ho ascoltato (e che il pubblico di Radio3 ha potuto ascoltare in diretta) non era il Flauto magico di Mozart, ma un disperato tentativo di imitarlo: un tragico festino fatto di stonature a rotta di collo, dai primi accordi all'ultimo del capolavoro mozartiano.
La brutta piega che avrebbe preso la serata si è vista fin dall'ingresso, sciatto e trasandato, degli ilari orchestrali berlinesi: quando mai si è visto, se non nelle sagre paesane, che alcuni membri della compagine impegnata in un sì importante evento si presentino sul palco alla spicciolata, voltando le spalle al pubblico, parlottando e ridacchiando ben prima che gli applausi di rito ne salutino l'ingresso? Nemmeno una banda all'Oktoberfest.
Formalità...direte voi. Sì. È vero. Ma a questo punto divento anche formalista, soprattutto quando assisto al trionfo di una compagine che tanto è misera nella forma quanto nei contenuti musicali.
Intendiamoci. René Jacobs , a furia di dischi e concerti, il fatto suo ormai lo sa. La sua concertazione, piena di stravaganti invenzioni ritmiche e volutamente “burlona” (le 3 Dame trasformate in tre soubrettes da operetta, per esempio, o il Monostatos isteroide) potrebbe anche passare, se si considera un Mozart alla Milos Forman, sufficientemente brioso e dal tono divertito. Non è una concertazione che annoia , in questo senso. Non sono del tutto d'accordo nel far pendere l'ago della bilancia dalla parte di un Flauto magico giocoso più che pensoso: sappiamo bene che è l'uno e l'altro, però è una scelta e va rispettata come tale. Jacobs in questo è stato coerente e ha giocato con il suo gruppo.
Il problema principale è l'intonazione , perennemente calante, dell'ensemble , caratterizzato da un quartetto d'archi dal suono secco, segaligno, e da insopportabili spernacchiate dei corni naturali. Una signora collocata in alto a sinistra fungeva da rumorista, come nei vecchi sceneggiati radiofonici: un cicalino in bocca ed ecco gli uccellini di Papageno, un colpo a destra su una lamiera ed ecco i tuoni della Regina della Notte. Tenero e patetico al tempo stesso.
Non parliamo poi dell'agitatissimo professore addetto a tempestare il timpano, o quel che era (troppo simile ai tamburi rituali di certe tribù africane) e al cosiddetto fortepiano, che quando entrava in ballo pareva una chitarra scordata.
Vi lascio immaginare la mitica Ouverture cosa è diventata: una burla.
Si sperava nelle voci ma per una sorta di sinistra, macabra solidarietà, il cast vocale si è perfettamente adeguato allo smandolinamento di una simile orchestra . Nella parte di Tamino un tenore che sembrava il prodotto di un impossibile incrocio tra il sindaco di Torino, Fassino, e il tenore Ian Bostridge, dotato di una vocina esile e informe, priva di un qualsivoglia suono appoggiato. Ora, mi si dirà: Mozart non è Verdi. Grazie, lo so. Ma Mozart va cantato, lo stesso e possibilmente senza farsi coprire da un'orchestra di zanzare, per di più. Il signor Topi Lethippu, così si chiama il prode interprete, non è stato in grado di sostenere sul fiato nemmeno una frase, per sbaglio. Con il risultato di regalare un Tamino bianco, lavato in varecchina, con falsetti calanti distribuiti ogni qual volta la voce doveva superare un fa acuto. Una vera pena. Inoltre, una pronuncia tedesca da paura, diciamo pure indecente. Data la qualità della sua intonazione, suppongo e spero che il “Diapason d'oro” vinto nel 2010, abbia una valenza ironica.
Miah Persson, graziosa svedesina, era Pamina. Il suo curriculum è su per giù quello che ebbe a suo tempo Margaret Price, con una unica differenza: la Price sapeva cantare e molto bene, la Persson ...no. Voce ingolata, costretta a gridare sugli acuti e a scomparire nei pianissimi, scomposta nel legato, poco intonata, disordinata.Se questo è il top che propone il mercato....
Leggermente meglio il baritono austriaco Daniel Schmutzhard, che per lo meno si è sforzato di configurare un Papageno degno di questo nome, dando spigliatezza e simpatìa al suo personaggio. Peccato che, ogni qual volta doveva salire, la voce andava indietro , inesorabilmente.
Un signore non molto alto parlava con voce bassa: si chiama Marcos Fink. Un basso “parlante” , quando Mozart aveva previsto un basso profondo CANTANTE. Si vede che nella testa di René Jacobs vi è un po' di confusione, forse quella “folie organisée” di cui parlò Stendhal a proposito di Rossini? Non sappiamo.
Veniamo, dulcis in fundo, alla migliore, l'unica cantante in grado di eseguire con proprietà, gusto e voce il suo impervio ruolo: il soprano turco Burcu Uyar. Finalmente, una boccata d'ossigeno: precisa nelle agilità, intonatissima, intensa, con una voce che arrivava ovunque. Piccolini i fa sopracuti, ma è poca cosa rispetto al resto della compagnìa.
B.Uyar
Vorrei tacere i nomi degli altri, compresi quei tre genietti che facevano a gara a chi stonava di più.
Il Coro, formato da signore e signori dotati di voci fisse e a tratti ululanti (vedi finale atto I) faceva pensare alle allegre combriccole che si radunano a Monaco muniti di birra e salsicce.
Uscendo dalla sala, piuttosto disgustato (lo ammetto), ho detto a voce alta: “Ma per una nota intonata bisognava pagare un supplemento.”? Alcune persone hanno annuito, sorridendo. Ma allora perchè li avete applauditi???
Duole dire che si trattava della prima esecuzione integrale del Flauto magico nella storia dei concerti di S. Cecilia . Ma non era meglio utilizzare la splendida compagine dell'Accademia, Coro e Orchestra, magari diretti da Pappano e con voci vere? No?!?
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Mercoledì 07 Dicembre 2011 23:02 |
E' una prassi ormai consolidata del 7 dicembre, alias Sant'Ambrogio, costruire l'evento assai prima che questo si realizzi sul palcoscenico del Teatro alla Scala. E' una sorta di 'coccodrillo' giornalistico al positivo, naturalmente: trionfo annunciato, sfilata mondana, eccezionale cast, esecuzione memorabile.
Nel 2011 questo evento cade in un momento totalmente sbagliato per decantarne le sperticate lodi: sono i giorni delle tasse, della crisi, dell'Europa (sic??) che soccombe e vacilla sotto i colpi dei ricatti internazionali, i giorni di Monti e Napolitano, che come due vecchi compari occupano il palco reale , un po' automi un po' statue del Commendatore. E il Sublime, che sempre ci sorprende, giunge esattamente quando Carsen decide di piazzare proprio il Commendatore mozartiano tra Napolitano e Monti, formando così un trio che è meglio dei Tre Tenori , forse.
Il Don Giovanni diventa così un simbolo di questa Italia, di questa Scala, di questa Europa, dei tempi che viviamo o in cui molti sopravvivono: non è più l'evento dei tempi d'oro di Ghiringhelli o Badini o Grassi o persino Fontana (oggi voglio rovinarmi!), ma è un Don Giovanni della porta accanto, a Roma si direbbe “de noantri”, uno spettacolo che lo stesso Daniele Rubboli al Rosetum. Con qualche soldarello in più, avrebbe potuto organizzare in maniera fors'anche più decorosa.
Cominciamo dunque dalla regìa (sic ?!?) di Robert Carsen, che egli stesso ha definito “un omaggio alla Scala” . L'omaggio, così dice Lui, viene realizzato in un Nulla travestito da Scala. Provo a spiegarmi meglio: in scena non c'è nulla, la scena è in vacanza o in sciopero -fate voi. C'è il sipario e un 'altra serie di sipari, un buio quasi perenne, i personaggi che passeggiano, rotolano, si agitano senza un valido “Perchè?” . Già, perchè chiedersi “perchè?” , direte voi. Ma un Perchè c'è sempre, soprattutto quando si deve frugare nel vuoto di idee e di scenografie. Adesso arriverà qualcuno, sempre molto intelligente, a spiegarci che invece c'è questo e quest'altro, che la regìa è “geniale”. Un'altra parola di cui si abusa , nei nostri tempi.
R. Carsen
Io di geniale non ho visto nulla...ma proprio nulla. Anzi, scusate ma ho visto parecchie sciocchezze, per non usare termini che possano risultare troppo offensivi: Elvira vestita inizialmente da Dick Tracy poi in sottoveste per tutta l'opera, salvo qualche rara parentesi in cui sfoggiava un abito rosso sipario, tanto per non farci dimenticare il triste Leitmotiv di questo spettacolo; sempre Elvira che ride alla lettura del Catalogo di Leporello; “Già che siam verso sera” dice il protagonista nel II atto e le luci della sala si spengono; Zerlina che prende a calci Masetto prima di “Vedrai carino” (per come cantava...immagino); esce una donna nuda dalla buca orchestrale dopo il Sestetto...ma chi è? Dov'era? Cosa faceva...? Forse un “servizietto” al maestro Barenboim...si sa....durante i recitativi, ci si annoia; l'orrenda diapositiva del Teatro alla Scala vuoto, proiettata sul fondale per la scena finale, così simile a quei telegiornali di 30 anni fa, in cui l'inviato Sandro Paternostro parlava da Londra con la foto del Big Ben alle spalle (in realtà era in mutande a casa sua, in una stanza 4m x 4 !).
Insomma...il Nulla elevato a finta Arte. E , come ben disse Hugo De Ana (un regista VERO): “Queste cose...costano... quanto e PIU' di uno spettacolo apparentemente costoso, con le scene costruite!”.
Per Carsen Don Giovanni appare come un indifferente dandy, anche vagamente annoiato....può essere una soluzione: del resto Don Giovanni lo avrebbe messo in scena così anche mia nonna, essendo una di quelle opere-capolavoro in cui ogni idea, anche la più idiota, funziona. Però questa impostazione nuoce alla figura allampanata del baritono Peter Mattei, un ottimo vocalista, ma che si presenta come una via di mezzo tra Neri Marcoré e Jim Hutton il celebre Ellery Queen televisivo, cioè con quella allure e quella faccia un po' “appesa” , vagamente da “menagramo” , diciamo pure con una capacità seduttiva pari a quella d'un merluzzo lesso. Colpa del regista averlo conciato così e averlo fatto recitare così: un bravo regista AIUTA e MIGLIORA i suoi attori, non li mortifica.
j.Hutton n.marcoré P.Mattei
Stesso trattamento per la “bellona” della compagnìa, Anna Netrebko, letteralmente massacrata dalla mise imposta da Carsen: praticamente la sorella più giovane e pingue di Marta Domingo, impossibile conciarla così. A una donna in carne, poi, NON si scoprono le braccia e le spalle in quel modo.
M.Domingo
Veniamo alle voci.
Su tutti sono emerse le buone vocalità di Barbara Frittoli, magistrale nei recitativi e un po' meno brava nelle terribili arie di Donna Elvira, dove qualche nota si perdeva per strada, e di Peter Mattei, stilista impeccabile, di bel colore, intonato, espressivo. Peccato le urla nel Finale, davvero fuori luogo.
La Netrebko, in sospetto di microfono nascosto tra le tette (si è sentito in maniera distinta nel duetto finale con Don Ottavio, ma voglio verificare meglio), ha indubbiamente una grinta e un bellissimo colore di voce ma, come in Anna Bolena le cose andavano per il verso giusto, qui in Mozart sono venuti a galla alcuni brutti difetti: 1) l'eccesso d'impeto nei recitativi per strafare , quando Donn'Anna non è Giorgetta del Tabarro; 2) l'intonazione non sempre cristallina, anzi...; 3) i colpi di glottide per agilità e acuti, soprattutto nel rondò “Non mi dir” , che ha rasentato il miracolo di una Donna Gallo Bis.
Purtroppo di Giuseppe Filianoti dobbiamo verificare ,ancora una volta, le cattive condizioni generali, con una intonazione non accettabile e una prestazione perennemente preoccupata.
Restano Bryn Terfel, stremato, con la voce vuota in basso e perennemente morchiosa, schacciata tra naso e gola, tremendo nell'aria del Catalogo, in cui si è impiccato nella nota tenuta della “grande maestOOOsa” , già cavallo di battaglia (persa) di Claudio Desderi; la coppia Zerlina-Masetto da dimenticare totalmente, non mi fate dire altro, e il senile, traballante Commendatore, tra l'altro un nano o quasi, che collocato accanto a Peter Mattei, dava luogo alla classica coppia definita a Roma de “l'olivaro cor secchio”.
Manca Barenboim, che a me ha dato l'impressione di un capitano in mezzo ai flutti, con un timone spezzato al posto della bacchetta. Qualche sprazzo buono alternato a lentezze inspiegabili e a confusioni non tollerabili in una occasione tanto grande e strombazzata. Tuttavia io non lo avrei fischiato per la direzione bensì per aver avallato alcuni elementi del cast.
Il pubblico, buonista fino all'eccesso, ha tuttavia contestato Carsen e Barenboim. Il che, equivale, a un successo per un regista à la page.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Gentile Enrico,
le scrivo spinta dal desiderio di esprimerle il mio vivo consenso per il suo articolo sulla prima alla Scala.
Non ero presente all’evento ma – date le condizioni in cui versa la “musica” italiana – non stento a credere alle sue parole.
Certo, ci vuole coraggio per demolire un’istituzione apparentemente intoccabile come La Scala di Milano.
Forse – e dico solo forse – l’ormai evidente collasso artistico ha a che fare con la totale assenza di meritocrazia (nei concorsi e non solo), con l’abuso di potere (che avviene in questo come in qualunque altro mestiere) e con un fenomeno nuovo che appartiene decisamente a questa generazione di “artisti”: il delirio di onnipotenza.
Sì, perchè quando per anni “fenomeni” che non erano tali raccoglievano plausi al di là del reale prodotto che sapevano offrire si è in qualche modo sparsa come un morbo l’idea che la realtà dei fatti non fosse così importante. La cosa veramente importante era ciò che “si diceva in giro”. Ciò che scrivevano sui giornali scribacchini incompetenti comprati dal sistema. Ciò che si offriva in tv come “eccellenza” della musica in Italia, certi del fatto che ormai nessuno fosse più in grado (nè avesse intenzione) di distinguere tra chi possedeva reali competenze – e faceva la fame - e chi millantando di possedere doti straordinarie riempiva vacui trafiletti e pingui stomaci.
Probabilmente l’aria è cambiata. Anche di poco. Non ha importanza.
Quando un castello è costruito sulla sabbia basta poco per farlo venire giù.
Quindi buon lavoro!
E complimenti per la sua “penna audace”.
Francesca G.
Grazie Francesca, condivido in tutto e per tutto le tue parole. Ribadisco che trovo indecente che un teatro così importante e rappresentativo per il nostro paese proponga un simile spettacolo. Ma non bisogna mai allinearsi alla società del 'consenso organizzato'. Una mail come la Tua sprona a continuare sulla strada del giudizio magari duro ma LIBERO.
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Caro e bravo Enrico Stinchelli ho letto il suo blog : ottimo sullo spettacolo alla Scala. Da anziano critico teatrale che non vuole più occuparsi di teatri nelle attuali condizioni ho però ritenuto un dovere scrivere su Facebook quanto segue che mi piace inviarle
" Don Giovanni di Mozart alla Scala: applausi, applausi. A parte il fatto che io metterei il costo dell'operazione nei titoli di coda perchè certi lussi da satrapie forse non ce li possiamo permettere più, e che mi hanno meravigliato Monti e Napolitano a fare da comparsa per il Commendatore apparso nel loro palco reale nel finale (mamma mia!), affermo che la regia è orrenda, opulenta e sciatta, e che alla musica di Mozart non resta che andarsene per i fatti suoi ... su un'altra autostrada ..verso il cielo. Io vedrò vedere una partita di calcio del Barcellona (audio muto) ascoltando Mozart. Il talento costruito genialmente ed il genio misterioso (dal cielo disceso) si incontreranno, finalmente! (E invoco una prossima regia del Don Giovanni: un austero Sacro Mistero senza scene se non i video del Barcellona ...).""
Egidio P.
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Lunedì 05 Dicembre 2011 08:03 |
Venezia, T.La Fenice
Lungo e felice il connubio che lega il Trovatore alla Fenice di Venezia: una delle opere più belle e uno dei più bei teatri d'opera , i cui fantastici stucchi dorati sembrano l'ideale cornice del capolavoro verdiano. Non è un caso che uno degli incipit cinematografici leggendari sia appunto il finale del III atto del Trovatore in “Senso” di Visconti , dove la Fenice e la squillante “Di quella pira” salutata dai volantini insurrezionali restano il più bell'omaggio a questo teatro mai realizzato finora.
La produzione cui ho assistito ieri, seconda recita pomeridiana, si è conclusa con un grande successo per tutti i protagonisti , eccettuata qualche sonora contestazione per il maestro Frizza, direttore e concertatore dello spettacolo. Luci e ombre, quindi, che sarà bene esaminare partendo dall'allestimento, firmato da Lorenzo Mariani. Brutto, decisamente brutto, con quel misto di polveroso e pretenzioso al tempo stesso, che produce il solo effetto di rimpiangere da un lato la serena compostezza di un Beppe De Tomasi e dall'altro la provocatoria brutalità di Calixto Bieito. Una scena spoglia, una strana landa semirocciosa a metà strada tra il Sahara e la strada che collega Avetrana a S.Cesareo in Puglia (senza gli ulivi secolari, però!) , sullo sfondo una riproduzione mal realizzata di Castel Del Monte, alcuni elementi che apparivano nel corso delle varie scene: un cavallo bianco di gesso, un drappo appeso che poi cadeva a terra nella scena del carcere (sollevando un nugolo di polvere),una enorme luna ora bianca ora rossa sul fondale, un letto (?!) nella scena dello sposalizio di Manrico e Leonora (in cui si presume debba consumarsi la prima notte, in barba alle “gioie di casto amor” vagheggiate dalla coppia) . Ma a parte la bruttezza delle scene, con quel castelletto sullo sfondo sproporzionato , è la regìa , a tratti strampalata, ad aver gravemente nuociuto allo spettacolo: “Venite intorno a me!” dice Ferrando all'inizio dell'opera e tutti sono intorno a lui da un quarto d'ora (?!) , Manrico canta “Ah sì ben mio” andandosene al proscenio e rivolgendosi al pubblico, senza mai filarsi la povera sua Leonora, costretta a raggiungerlo come per rammentargli “Ehi, guarda che ci sono anch'io!” , il Conte che si avventa su Leonora e la seduce (vestito di tutto punto!!!) al termine del duetto, mentre Manrico e Azucena passeggiano tranquillamente davanti a loro … insomma....ce n'è abbastanz a per stendere il classico velo pietoso su questo allestimento proveniente da Parma e che a Parma sarebbe dovuto rimanere, chiuso in qualche magazzino di cui andava persa la chiave.
Ombre, purtroppo, anche sulla direzione d'orchestra, a cura del maestro Frizza. Non è stato Verdi ma direi piuttosto un Rossini giocoso, o il Donizetti della “Fille du régiment”: mancava il colore, plumbeo e denso, della autentica orchestra verdiana, l'orchestra suonava brillante sì ma leggerissima, con accordi staccati e petulanti, e tempi davvero strambi: velocissime le arie , “Ah sì ben mio” sembrava “Ah non giunge” , il finale di Sonnambula. No. Più che meritate le contestazioni al direttore che, evidentemente, non si trova a suo agio in questo repertorio o ne ha un'idea tutta sua, non condivisibile.
Protagonista, attesissimo, il tenore Francesco Meli , che debuttava Manrico dopo una brillantissima carriera che lo ha visto emergere nel classico repertorio belcantistico. Voce di magnifico smalto e naturale lucentezza, dizione scolpita, volume e fraseggio da grande interprete: una prova che almeno per un buon 98% può dirsi non solo riuscitissima ma pressochè perfetta. Un Manrico giovane (com'è in realtà) , ardente, autorevole. Chiude il primo atto con il re bemolle all'unisono con Leonora (“E' psicologicamente più facile” , confesserà nell'intervista dopo lo spettacolo), svolge in modo encomiabile i duetti con la madre, cesella l'aria “Ah sì ben mio” con intenzioni e morbidezze inusitate e arriva alla Pira , che è lo scoglio forse più temuto dell'intera storia operistica, con quel minimo di lecita preoccupazione concessa a ogni giovane interprete e ,a maggior ragione , da concedersi a un Manrico giunto alla sua seconda recita. La cabaletta viene eseguita due volte, abbassata di tono (si maggiore in luogo del temuto e temibile do ), il primo “ o teco” è preso ma con evidente paura e suona decisamente indietro, il secondo si acuto, l'”all'armi”, è più convinto all'inizio ma si chiude in modo avventuroso, con la gola che interviene proditoriamente. Ho parlato di questo con Francesco Meli, che molto onestamente ha confessato di aver sempre avuto problemi con la sezione acuta della sua voce e che fin dagli esordi ha cercato di evitare le parti troppo estese. In futuro non accetterà , ha detto, ruoli più impegnativi di questo e continuerà con le sue Traviate,Rigoletto, Lucia. “Otello? Nemmeno per idea: è stata una proposta di un direttore artistico (l'omonimo Meli di Parma, n.d.r.) per un Otello particolare, ma per ora non se ne parla. Continuo con le mie opere.” Così ha detto Francesco e io gli auguro vivamente di proseguire in tal modo il suo radioso percorso.
Maria José Siri era Leonora. Magnifica interprete, al pari del suo amato trovatore, in grado di superare tecnicamente ogni ostacolo, compresi i pianissimi in zona acuta alternati a splendide salite al do, soprattutto nella tremenda cabaletta del IV atto. La voce non è bellissima, un po' aspra, ma possiede un colore brunito che dà carattere ai suoi personaggi e l'interprete è sempre molto varia e partecipe. In scena si muove con eleganza e con l'allure dei grandi interpreti.
Il baritono Vassallo, Conte di Luna, ha sfoderato un bel colore e un volume notevole, con la giusta protervia che deve a tratti caratterizzare questo personaggio. Peccato che nell'aria “Il balen del suo sorriso” abbia avuto problemi di intonazione e che spesso l'aggressività abbia avuto la meglio sulla morbidezza del suo canto, che resta tuttavia molto autorevole e di alta qualità.
La Simeoni come Azucena merita un discorso a parte. La voce è molto chiara, addirittura più chiara di quella della Siri, e in talune scene come per esempio l'aria “Stride la vampa” e “Condotta ell'era in ceppi”, mancava la cavata dell'autentico mezzosoprano verdiano e la pienezza del registro grave. Non è questione, come ho sentito dire, di un'Azucena giovane o anziana, è questione di VOCE....vorrei fosse chiar questo concetto. Ma attenzione: la Simeoni sa cantare con la sua voce meglio di tanti mezzosoprani, anche importanti. E' musicalissima, possiede un fraseggio perfetto, sale al do e al si bemolle con facilità, interpreta con grande partecipazione emotiva, alla fine convince, nonostante i rilievi di cui sopra. Non le direi mai di insistere troppo con Verdi ma mi piacerebbe ascoltarla in tante opere dove si richiede un solido registro acuto e una sicura interprete.
Giorgio Giuseppini come Ferrando ha avuto buoni momenti nel registro medio-grave, ma in affanno sugli acuti. Tra i comprimari bene la Ines di Antonella Meridda, meno bene Mattiazzo come Ruiz. |
Lunedì 28 Novembre 2011 00:21 |
Il Macbeth di Vedi approda all'Opera di Roma sotto la bacchetta del suo direttore “perpetuo” , Riccardo Muti, e con la regìa di Peter Stein in coproduzione con il Festival di Salisburgo. Spiace che la capitale d'Italia, di questa Italia, sia diventata una sorta di succursale di un Festival , un tempo prestigioso oggi un po' meno: forse è un altro scotto da pagare per l'Europa-Che-Non-C'è o per non si sa quali occulti accordi. Sta di fatto che lo spettacolo importato dalla bella cittadina austriaca è tutto fuorchè un bello spettacolo: la solita scatola nera che abbiamo visto da trent'anni in non si sa quante occasioni, con le solite quattro luci di taglio, con il solito fondale ora azzurro ora bluastro ora arancione, con il solito pannello che fa avanti e indietro da una quinta, tanto per arricchire un po' la scabra scenografia. E' un Macbeth noioso e scontato quello di Stein, che però nel terzo atto non manca di inserire qualche “fantastica” trovata: mentre Macbeth giace steso dopo la scena delle apparizioni, viene circondato da un nugolo di bambini e bambine vestite di bianco, una sorta di improvvisato Kindergarten, che si mettono a danzare e a giocare come in una strana festicciola en plein air. Le stramberìe non finiscono qui: il famoso balletto, concepito da Verdi per l'Opéra di Parigi, viene eseguito all'inizio del III atto come intermezzo sinfonico, a sipario chiuso. Perchè mai? Non ha l'Opera di Roma un corpo di ballo ? Così ci tocca assistere a uno stravagante concerto, tra l'altro un pò enfaticamente eseguito dal Direttore Perpetuo. Last but not least, le proiezioni che commentano le frasi di Macbeth , con le immagini della Dinastia Reale inglese, e quando questi canta “Oh vista orribile, oh vista orribile” appare in alto la faccia di Elisabetta II: effetto quanto mai comico. Bisognerà anche spiegare a Herr Stein che le streghe del Macbeth non sono personaggi buffi e che vederle ballare, come nella disneyana Spada nella roccia, non è un effetto propriamente indovinato.
Veniamo dunque a questa concertazione. Si è parlato molto in questi ultimi anni di un Muti più meditativo, meno enfatico, alla ricerca di sonorità più soffuse e crepuscolari....ma dove?!? Ritroviamo il Muti che ben conosciamo dai tempi del Maggio Fiorentino e poi della Scala: fin dal preludio dell'opera vi sono le note scelte dinamiche strampalate, con tempi ora strettissimi ora sdilinquiti in esasperanti lentezze, con irruenti entrate di ottavino e legni, poderosi squilli degli ottoni, strappate di contrabbasso e via discorrendo. E' il campionario del Muti con l'elmetto , che guarda al primo Verdi come a un bersagliere con schioppo in spalla e sciabola al fianco sempre pronto alla carica. Vi sono buoni momenti nella concertazione, non è tutta una giostra ma vengono puntualmente mandati a ramengo da incredibili cadute: come il finale I , per esempio, dove lo stringendo del Coro “L'ira tua, formidabile e pronta” rievoca climi più circensi che drammatici, o le stesse musiche del Balletto, che dovrebbero rievocare Ecate e invece fanno pensare a più villerecce Sagre paesane.
Veniamo alle voci, per lo più travolte dalle sonorità mutiane ma non per esclusiva colpa del Maestro, sia ben chiaro. Tatiana Serjan è Lady Macbeth: una bella figura senz'altro e una bravissima attrice, ma la voce è afflitta da un vibratino stretto abbastanza fastidioso e nonostante una certa sonorità di base, tende ad andare “indietro” su si naturali e do. La nota più bella della serata è stato il periglioso re bemolle che chiude il Sonnambulismo, nel IV atto, ma non può bastare. Il protagonista è il baritono Dario Solari, che per aggiungere autorevolezza al suo personaggio fa l'errore di gonfiare i centri e ingrossare troppo la voce, a discapito dello squillo :peccato, perchè oltre a essere un ottimo fraseggiatore è anche un artista che sa stare in scena. Il basso Riccardo Zanellato è bravo ma insufficiente come Banquo: nella grande aria non riusciva a imporsi e restava nell'ambito di una buona routine.
Antonio Poli è senz'altro un tenore di bellissimo colore e canta con molto gusto, ma non ha il volume necessario per un ruolo che è da tenore lirico spinto se non addirittura drammatico. Così l'entrata del I atto passa quasi inosservata e la cabaletta che segue l'aria, in coppia con l'altro tenore (Malcolm), lo vede soccombere accanto al collega (il tenore Antonio Corianò).
Da segnalare la bravissima Anna Malavasi come Dama di Lady Macbeth, il Medico di Gianluca Buratto e le tre Apparizioni, tutte voci molto intonate: Luca Dall'Amico, Claudio Prosperini e Marta Pacifici.
Da lodare incondizionatamente Coro e Orchestra dell'Opera di Roma, che hanno dato il massimo.
R.Muti e P.Stein
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