Recensioni
A Roma una Cenerentola a metà
Domenica 24 Gennaio 2016 10:29

 

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Molto attesa la Cenerentola di Rossini all'Opera di Roma firmata da Emma Dante.Chi si

aspettava le provocazioni in stile Carmen\ Scala,che tanti dissensi suscitarono a loro

tempo, è stato fortemente deluso.Niente stramberìe,nessuna provocazione in linea con la

moda del " regìetheater", direi piuttosto una Cenerentola carina, delicatamente fiabesca,

semplice,a tratti persino timida. La scena di Carmine Maringola si limitava a una grande

parete bianca semovente,con grandi lampadari che ogni tanto pendevano dalla graticcia

e qualche ingombro d'arredamento.Lo spettacolo era per lo più realizzato dai bravi

ballerini,vestiti come automi a molla,che per tutta l'opera commentavano ogni scena con i

loro movimenti a scatti, simulando un gruppo di giocattoli un pò pazzi e imprevedibili. I

cantanti potevano così esibirsi in tutta tranquillità,seguendo posizioni e movimenti

tradizionalissimi,senza particolari imprese ginniche. Belli i  costumi di Vanessa Sannino e

delicate le luci di Cristian Zucaro.    

 

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                                   Luci e ombre per il cast vocale. Non bene la coppia degli amorosi:

la Cenerentola ,pur avvenente, di Serena Malfi presentava troppe lacune tecniche nel

registro alto, tanto da pregiudicare gravemente la scena finale e così pure il Ramiro di

Francisco Gatell, tanto garbato e morbido nel registro centrale quanto incerto e tirato sui

do acuti della sua grande aria, conclusa con troppa fatica. Bene il Dandini di Vito

Priante,molto sicuro , e salvato dalla sola esperienza il Magnifico di Alessandro Corbelli,

che ricordavo con più voce.In ogni caso non è esattamente un basso buffo,come Don

Magnifico dovrebbe essere,bensì un baritono piuttosto brillante e la tessitura gli ha

nuociuto soprattutto quando era necessario sovrastare il suono proveniente dalla

buca.Notevole,tuttavia,la sua prova attori alle. Ottime le sorellastre,Damiana Mizzi e

Annunziata Vestri  e in difficoltà l'Alidoro di Ugo Guagliardo,con seri problemi di note

ingolfate e dure sugli acuti.                

 

 Sul podio il giovane maestro Alejo Pérez, che   aveva piglio e verve,ma che in alcuni

punti non ha trovato un suono ugualmente brillante  e brioso come questo capolavoro

richiede. L'orchestra ha suonato bene e il Coro è stato  molto preciso nei suoi interventi.

Successo di pubblico,equamente distribuito  tra gli  interpreti.

 

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A PIACENZA UN NABUCCO CON I CONTROFIOCCHI
Martedì 29 Dicembre 2015 16:56
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Gli ingredienti sono semplici: un grandissimo protagonista, ancor oggi sulla breccia dopo  oltre  mezzo secolo di carriera  (Leo Nucci), un  astro ormai  emerso (Anna Pirozzi) nella  parte  micidiale  di  Abigaille, un  gruppo di  giovani  entusiasti e  motivati a  offrire  il massimo, uno spettacolo  collaudato e  funzionale alle esigenze  di  tutti, una  direzione  d'orchestra  (Aldo Sisillo)   con le  idee  ben  chiare riguardo  i  tempi da  staccare, le dinamiche  , l'equilibrio da  assicurare  tra  buca  e palcoscenico. Cosa ne  risulta?  Semplicemente uno strepitoso  Nabucco, di  quelli che riportano indetro nel  tempo, quando  era  il TEATRO  a  farla  da  padrone, o meglio  il  "senso  del Teatro"  che  è  qualcosa  di  diverso e  di prezioso, da  difendere.

Il Nabucco messo in scena  domenica scorsa e  che verrà  replicato  stasera al Municipale di Piacenza  veleggia verso  il suo  trionfo, con il  pubblico  proteso dai palchi ad applaudire, in un clima festoso e  mi è parso addirittura  liberatorio. Si sa  come  in Emilia  Romagna  la  passione  operistica  non sia  affatto sopita, per fortuna: si respira  ancora  quell'aria  permeata  di sano  loggionismo, con la presenza  dei Clubs, di personaggi  anche  pittoreschi  ma che costituiscono lo zoccolo duro  di una passione  che  molti  vorrebbero   posta  sotto  formalina, e  che  non troviamo  più  in molti  conclamati  "templi". Per loro, come  per  tutti, è  stata  una  grande  festa, con continui applausi a  scena  aperta  e  un autentico trionfo al termine  e  il merito va  al  lavoro  tenace, serio  e  costante  del  direttore artistico, Cristina  Ferrari, che ha  saputo mettere assieme  gli ingredienti  'giusti'  di  cui parlavo all'inizio.

Un Teatro  senza  un solo euro di  deficit e  che  il Ministero  non premia, inspiegabilmente, forse manovrato  da  altre  cabale  che spostano  gli emolumenti  verso la  costiera  ravennate o  inopinatamente  procede a  tagliare, pensando  di risolvere così  le  magagne  amministrative   prodotte  da  altri.

 

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Sperando  che  questo andazzo cambi e  al  più  presto, godiamoci  questo Nabucco e  i fuochi d'artificio  musicali : in primis  i luminosi acuti della  coppia  Nucci- Pirozzi, coinvolti in una gara di bravura. “Ho fatto semplicemente Nabucco” dice in sintesi Leo Nucci al termine della sua recita. Il fatto è, come tutti sanno, che è proprio quella benedetta “semplicità” a essere tremendamente difficile da raggiungere: frutto d'un equilibrio sottile fatto di esperienza, tecnica, buona salute e soprattuttio uno smisurato amore per l'Opera, e questo non te lo insegna nessuno....devi averlo di tuo. Nucci ha oggi un colore e uno spessore nella voce che non aveva da giovane, avendo però mantenuto la spavalda sicurezza e lo smalto degli acuti, la sua arma vincente. Impressionanti l'entrata, il duetto con Abigaille, la cabaletta del IV atto coronata da un la bemolle “bomba” che forse farà storcere il naso ai maniaci del segno scritto ma che sarebbero piaciuti assai a Verdi, che non apponeva le puntature acute in partitura ben sapendo che non tutti sarebbero stati in grado di eseguirli. Di Nucci è ancora da apprezzare la dizione scolpita e l'uso degli accenti, sempre appropriatissimi , l'uso della cosiddetta “parola scenica” tanto invocata dal genio bussetano. Rispetto al famoso Nabucco all'Opera di Roma, diretto dal maestro Muti, abbiamo per fortuna notato la quasi totale eliminazione di quegli eccessi (anche comici) nella recitazione nel III e IV atto, quando Nabucco è indebolito dal folgore divino: Nucci lo pensa un po' come gli anziani all'ospizio, ne abbiamo anche parlato nel dopo-Teatro, ma a mio parere Nabucco più che sembrare afflitto da demenza senile è soprattutto turbato, depresso, sconvolto, ma resta - a mio parere- la grande dignità del personaggio, protagonista dell'opera.

 

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Anna Pirozzi si è dimostrata una Abigaille straordinaria poiché, intelligentemente, non ne ha soffocato l'intimo lirismo e soprattutto la matrice belcantistica. Ho letto qua e là di “nuova Dimitrova” : il paragone non mi sembra azzeccato. Parlerei piuttosto di “nuova Cerquetti”. La Dimitrova aveva una voce di metallo tagliente e di gigantesco volume, ma negli ultimi anni soffriva un po' nel do acutissimo: la Pirozzi ha un fondo lirico, non abusa in suoni di petto , non allarga mai il suono ma lo raccoglie, gioca sul contrasto continuo di “forte” e “piano” , anche pianissimo (l'aria del II atto è stata un cesello, da questo punto di vista), svetta agli acuti con sicurezza partendo da un attacco alto e mai aiutandosi con pericolosissime contrazioni di gola, tutto è sotto il controllo del fiato che sa usare con assoluta maestrìa. L'attrice è intensa, ogni gesto è giusto, ogni sguardo è pertinente al momento drammatico: meritatissimo il trionfo personale.

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Una lode particolare al resto del cast, dominato da un sicurissimo Mattìa Denti come Zaccaria, molto solido nel registro acuto ma non da meno nelle difficili discese alla zona grave, soprattutto nella Preghiera e nel finale del III atto. Ismaele era il tenore Leonardo Gramegna, che ha dalla sua una voce sonora e molto giocata sulla dizione scolpita: la sua è stata una prestazione in crescendo. Non benissimo invece la Fenena di Elisa Barbero, un po' troppo emozionata e non stabile nell'emissione soprattutto nella difficile cadenza della sua aria. Il basso Paolo Battaglia come Sacerdote di Belo di lusso ha assicurato una bella resa al suo personaggio, così come Roberto Carli nel ruolo di Abdallo e Alice Molinari nella parte molto acuta di Anna.

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Tutto poggiava sulle solide ed esperte spalle del maestro Aldo Sisillo, che ha mantenuto un ritmo incalzante ma mai soverchiando la linea vocale: il Nabucco così volava via in un batter d'occhio, senza cadute o sacche di noia, come spesso avviene per esempio con la Marcia funebre che accompagna Fenena, staccata in quattro e talvolta persino tagliata. L'imprinting del concertatore si capiva fin dalla Sinfonia, brillante e vigorosa, e chi ben comincia...è a metà dell'Opera. Ottima la compagine piacentina: Orchestra dell'Opera Italiana e due cori per l'occasione, del Teatro Municipale di Piacenza e della Fondazione Teatro Comunale di Modena, che hanno raccolto il loro personale successo dopo il “Va pensiero”. Dalla mia postazione privilegiata nel palco di barcaccia ho potuto apprezzare i contributi della sezione ottoni, percussioni, l'ottima arpa ,perfetta negli “Arredi festivi”, gli assoli del flauto, i violoncelli e soprattutto la formidabile signora bionda che assume il ruolo di konzertmeister, una vera furia che trascinava tutti gli archi con sé (mi dispiace non poterla nominare ma il programma di sala non ne riportava il nome).

Dello spettacolo, con regìa e scene di Stefano Monti, con sculture di Vincenzo Balena e costumi di Massimo Carlotto, non si può che tesserne le lodi: asciutto, funzionale, pragmatico, rispettoso della drammaturgìa ma al tempo stesso suggestivo, con un impiego delle masse a tutto tondo.

Successo incondizionato e meritato per tutti.

 

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Altri canti di Marte, il nuovo libro di Paolo Isotta
Sabato 26 Dicembre 2015 12:19

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Tra i tanti doni fatui che riempiono in questi giorni le nostre case varrà la pena di porre in

evidenza una strenna natalizia con cui ognuno farà bellissima figura: “Altri canti di Marte

della Marsilio, il nuovo libro di Paolo Isotta.

  Si tratta di una fondamentale prosecuzione e integrazione al tempo stesso de “La virtù

dell'elefante” , in cui Isotta -come avevamo scritto e detto- si era confermato il colto e

sagace cronista di una Napoli a pochi riservata e da pochissimi conosciuta, ma anche

 fine musicologo ,attento a descrivere una genìa varia e variopinta, popolata da miti

assoluti e da invereconde schiappe, le seconde- spesso e volentieri- più acclamate e più

popolari. 

 

 

Isotta racconta, svela e rivela, descrive, smaschera in taluni casi, si indigna e si

commuove e lo fa con tale profonda competenza da trascinarci con sé in un sorprendente

vortice, di fatto costringendoci a scoprire assieme a lui fatti , persone e musiche di cui

non si sospettava nemmeno l'esistenza o sulle quali non ci eravamo mai soffermati con

attenzione.

 

Il libro non annoia mai perchè dal nucleo infuocato costituito dalla materia prediletta, la

Grande Musica (non uso il termine Musica Seria per non avviare inutili polemiche su cosa

sia “serio” e cosa “faceto”) l'Autore riesce a diramare una fitta rete di aneddoti, postille,

riferimenti, intuizioni, ampliando la gamma degli argomenti e non escludendone nessuno,

compresa l'attualità più spiccia. E' un libro, come già scrissi, che va letto e riletto,

esattamente come il Parsifal di Wagner, che va ascoltato e riascoltato prima di poter

essere, non dico capito, ma almeno “intuito”. Ed è poprio al Parsifal che Isotta dedica una

formidabile disamina, l'opera con la quale Wagner si congedò dal mondo e fece pace con

il mondo. E' un percorso davvero straordinario quello offerto dalle pagine che Isotta

dedica a questo monumentum musicale e da sole valgono tutto il volume. Isotta aiuta a

capire le origini del dramma ma soprattutto la fitta trama musicale collegata alla trama: è

come se un maestro concertatore, invece di limitarsi a molinare le braccia e dare gli

attacchi all'orchestra, parlasse ad alta voce raccontando la partitura via via a un pubblico

avvertito ma non necessariamente competente:ed ecco che molti dettagli tecnici si

svelano da soli. Una guida essenziale e preziosa, tra le migliori mai offerte dalla

musicologìa.

 

Negli ”Altri canti di Marte” troviamo tante gemme inusitate e moltissime rivalutazioni che

invitano tutti noi a riflettere seriamente sul concetto di “Popolare” e di autenticamente

“Grande”, che sono -come si sa- cose totalmente diverse tra loro. Isotta è un provocatore

sì, ma di ALTI sentimenti: si può benissimo non concordare su alcuni giudizi e su alcune

sperticate lodi, ma non si può non scorgere la luce in ogni palinodìa anche la più inattesa.

 

                                            Gino_Marinuzzi

 

Così riscoprire un grandissimo maestro concertatore come Gino Marinuzzi, le musiche di

Casella, la grande scuola russa dell'Ottocento e del Novecento, Karl Boehm, Franco

Alfano e Ottorino Respighi, conoscere giovani pianisti come Francesco Libetta e capire

che sono meravigliosi musicisti ben superiori a tanti incredibili bluff (pensiamo a Lang

Lang, definito giustamente “pagliaccesco” da Isotta) , inflitti a noi dal sistema

pubblicitario....tutto ciò non può che ascriversi tra i meriti più alti dei libri di Isotta, destinati

a essere venduti e letti da un grande pubblico e non soltanto dai monomaniaci.

 

                                Franco_Alfano_con_il_suo_cane_e_i_due_gatti_siamesi

                                                                    Franco  Alfano con i suoi cani

 

  Da pag.103 a pag.107 il capitolo più sorprendente , dal significativo titolo “Il tradimento   

di Muti”. Ognun sa che Paolo Isotta fu di Muti amico e sostenitore fin dagli esordi,

condividendo entrambi la grande scuola pianistica del Maestro Vincenzo Vitale a Napoli.

Isotta fu anche una sorta di confidente, per non dire “fratello spirituale” di Muti:

innumerevoli saranno stati i consigli prima di un impegno molto sentito, prima di una

scelta artistica o immediatamente dopo un evento, tra i mille a Firenze, alla Scala, a

Roma, a Chicago. Ricordo personalmente Paolo Isotta sporgersi dal palco di proscenio

della direzione artistica all'Opera di Roma, fissando il maestro Muti per tutta la durata

dell'opera, seguendo amorevolmente ogni gesto, come si fa con chi si ammira in tutta

sincerità e senza alcun dubbio in merito. Cosa è avvenuto ? Perchè questa amicizia si è

interrotta ?

 

                       Muti_famiglia

 

Lo spiega  in tre fitte pagine: dopo la rottura con l'Opera di Roma, Muti

non interpella né Alessio Vlad (direttore artistico) né Paolo Isotta....” Il non aver Muti

pensato di avvisarci (io ne avevo titolo nella mia qualità si a di, m'illudevo, amico del

cuore sia in quella dell'unico critico musicale che a Muti desse atto del lavoro al Teatro

dell'Opera svolto) significa che per lui io e Alessio siamo pula di grano, niente.” E

prosegue inesorabile: “ A Roma la presenza di Alessio Vlad impediva alla signora Cristina

(n.d.r. moglie del celebre direttore d'orchestra) di spadroneggiare in teatro come faceva

alla Scala, ove addirittura interloquiva cogli orchestrali dettando loro norme di

comportamento, decideva la composizione di compagnìe di canto e partecipava alle

prove al pianoforte dando direttive ai cantanti. Il più grande direttore vivente è stato per

me uno dei più cari fra gli amici del cuore : certe cose non possono cancellarsi; ma lo è

stato. Egli dirige Opere con le regìe della moglie e della figlia ( la quale ha tuttavia

talento) . La figlia fa la voce recitante in cose da lui dirette. Accompagna in

concerto sinfonico il genero pianista: i due figli maschi gestiscono la sua attività e

la sua immagine artistica in un modo che suscita la gioia dei nemici e l'ilarità di

tutti...”. Parole nette, dure, pesanti cui si aggiungono aspri rimproveri per non aver

minimamente considerato la musica di Marinuzzi per i suoi programmi concertistici, per

non aver mai incluso Alfano, per non aver mai invitato a Chicago alcuni grandi interpreti

italiani , tra cui Libetta, Nicolosi, Caramiello, Carusi, Bresciani...ma come?? : “Si riempie

la bocca della parola Italianità : a differenza di quel che non facesse Abbado, le tasse le

paga in Italia: e poi?”.


 
LA LUCIA DALLE PIUME DI CRISTALLO
Domenica 22 Febbraio 2015 11:13

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Attraverso il lodevole servizio streaming offerto dal Teatro Carlo Felice di Genova abbiamo potuto seguire passo passo la Lucia di Lammermoor di Donizetti proposta da Dario Argento e da una compagnìa di canto interamente italiana (il che non vorrà dire niente ma come tutte le cose che non vogliono dire niente poi...dicono tutto) , capitanata da Desirée Rancatore, con Gianluca Terranova, Edgardo, il maestro Bisanti sul podio .

Questa regìa mi ha confermato che i maestri del cinema, allorquando si cimentano in un genere totalmente diverso dalla loro consuetudine, trovano non poche difficoltà e finiscono per annichilire esattamente quelle caratteristiche per cui sono famosi. Se Argento è il “Mago del Brivido” dovrebbe a quel punto osare e proporre la “magìa del Brivido”....ma l'Opera non è il Cinema e le magìe sono tecnicamente diverse. Ecco quindi un Argento che si rifugia nella piena tradizione, che rubacchia idee a destra e a manca (il cane dalmata di menottiana memoria nel primo atto, molte cose   desunte dalla regìa  di Mary Zimmermann al  Metropolitan), l'ambientazione ottocentesca, lo scalone obliquo da cui scene Lucia dopo l'omicidio, l'apparizione del fantasma (una bellissima donna nuda, Fabiola Di Blasi) accanto alla protagonista

 

“Quella fonte mai

senza tremar non veggo... Ah! tu lo sai.

Un Ravenswood, ardendo

di geloso furor, l’amata donna

colà trafisse: l’infelice cadde

nell’onda, ed ivi rimanea sepolta...

m’apparve l’ombra sua... “


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Un'operazione tutto sommato didascalica, come tante Lucie che si vedono in giro e forse meglio di taluni orrendi allestimenti provenienti da area anglo-germanica, ma senza guizzi.

Non appena Argento osa....poi....cade in alcune risibili trovate, come la comica uccisione dello sposino, che ci riporta ai mitici anni 70 e alle mosche di velluto grigio,oppure la veste insanguinata della protagonista persino più macchiata di quella leggendaria di Joan Sutherland o il ritorno di Lucia, stavolta come fantasma, nel finale dell'Opera, evocata dalle frasi di Edgardo suicida.

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Musicalmente una ottima direzione del maestro Bisanti, con Coro e Orchestra in gran forma (un plauso particolare al primo flauto solista per la perfetta “Pazzia”) , qualche taglietto qua e là ma senza stravolgere la partitura (come è spesso accaduto e ancora accade).

Desirée Rancatore , troppo infagottata dal trucco e da costumi decisamente ingombranti, deve attendere la Scena della Pazzìa per trovare il giusto equilibrio vocale, tale da consentirle quella che in gergo sportivo si chiama “rimonta”. La cavatina “Regnava nel silenzio” presentava alcuni pianissimi poco sostenuti dal fiato, una notina accidentata, acuto finale non sicurissimo ; il duetto “Verranno a te sull'aure” terminava senza la cadenza scritta dove -di solito- il tenore evita il mi bemolle ma sale al do, lasciando il sopracuto alla primadonna; il duetto con il baritono si concludeva con un acuto un po' faticosamente preso da sotto, confermando questo stato di forma non ottimale, direi proprio stanchezza vocale. Poi la classe e il talento innati della Rancatore hanno preso il sopravvento e dopo un ottimo Sestetto e concertato successivo, eccola venir fuori nella Pazzia, finalmente priva del costumone pesante, libera di svolazzare per il palcoscenico e di dar fuoco alle polveri. Meritato il successo alla fine dell'onerosa prova.

Mi è piaciuto l'Edgardo sanguigno di Terranova, magari avaro di preziosismi ma generoso, di bel timbro, giustamente drammatico nella scena della maledizione e nel finale, dove talvolta si odono da molti tenori fastidiosi falsetti mentre in questo caso si è apprezzato il tono da eroe protoromantico, quale Edgardo è. L'aria finale cantata in tono .

Di bella linea , elegante e molto musicale il baritono Antonucci, una certezza devo dire, in ogni opera in cui l'ho ascoltato ho sempre ravvisato una grande sicurezza e un aplomb assoluti. Peccato anche per lui il costume, che nel II atto lo faceva terribilmente simile al classico Don Pasquale. Si imponeva anche la voce scura del basso Parodi, sempre puntuale e preciso nei suoi interventi.

 

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