Non è stata una Prima memorabile, partiamo da questo semplicissimo e purtroppo malinconico dato di cronaca. 15 minuti di applausi non sono un Trionfo, per chi normalmente frequenta un Teatro d'Opera e ne conosce minimamente la storia. Trionfi sono i 30, 40 e oltre minuti di applausi, con continue ovazioni. Trionfi hanno ottenuto taluni allestimenti di Visconti, Zeffirelli, direttori come Karajan, Bernstein, cantanti come Callas, Corelli, Di Stefano e via discorrendo. Questo per la verità storica. In un 'epoca di conclamata ignoranza in materia, professata da svariati cronisti e persino da noti musicografi, è il caso di ricordarlo.
Lohengrin di Wagner sbarca alla Scala di Milano dopo , quella sì, memoranda esecuzione curata da Claudio Abbado e si presenta nelle squallide vesti registiche offerte da Claus Guth, uno dei tanti esponenti del cosiddetto “Regietheater” che tanti danni sta facendo da oltre trent'anni a buona parte del grande repertorio operistico.
Partiamo dunque dalla regìa ,com'è buona (o cattiva?) regola oggi. Uno dei rilievi a favore di questa operazione recita una scontata litanìa: “Finalmente una regìa non polverosa, MODERNA, e non olezzante di naftalina”.
In questa frase si condensano alcuni lampanti luoghi comuni. Intanto la parola “modernità” dovrebbe rappresentare un qualcosa di nuovo, che abbia a che fare con l'anno 2012. Invece il sipario scaligero si apre su una messa in scena che di anni ne potrebbe avere almeno una cinquantina: uno spaccato di un cortile a tre piani, tra Regina Coeli e un condominio bergamasco di periferia, un pianoforte verticale collocato di lato, un tavolo, tre sedie, un trespolo ricoperto di verzura, luci di taglio, atmosfera plumbea, nel II atto un tappeto rosso srotolato da coristi in frac, un mimo dotato di ali (supponiamo si tratti del cigno), le cameriere di Mary Poppins in alto, una bambina che vaga per il palcoscenico; nel III atto la grande novità sarebbe una pozzanghera al centro del palco circondata da un sinistro canneto e il solito, immancabile cortile. Sinceramente, nel 1964 Bob Wilson faceva cose più moderne e originali (per l'epoca...poi pure Wilson ha continuato a ripetersi ), non c'era bisogno di convocare Guth per avere una messa in scena così vecchia e polverosa. I costumi confermavano questa impostazione, essendo gli stessi costumi che da almeno 30 anni vediamo indosso a chiunque interpreti (in Germania e in altri siti) opere tipo: Tannhauser, Traviata, Ballo in maschera, Otello, Aida, Lohengrin, Don Giovanni, Nabucco, Frau ohne Schatten, Salomé, Fidelio e via discorrendo. A questo punto comincio a supporre che siano gli stessi, come nelle vecchie compagnìe di giro. Ma peggio delle scene e dei costumi , se possibile, è stata la regìa.
Secondo l'illustre parere di Hugo De Ana, uno dei più grandi registi oggi in attività, “I registi tedeschi sembrano voler continuamente scontare sui loro allestimenti la tragedia del nazismo”. In effetti nella regìa di Guth è fortissima la componente del puro masochismo, poiché raramente si trova in giro un Lohengrin più brutto e più stupido, registicamente parlando.
Regìa “psicoanalitica” ipotizzano taluni, regìa psicotica ...si direbbe piuttosto. Lohengrin appare in mezzo al Coro , accovacciato e tremolante, con il deretano rivolto verso il pubblico, scalzo. Sembra afflitto da autismo e da inguaribili tremori, tra l'epilessìa e il morbo di Parkinson: per gran parte della recita sarà così, eccettuato il III atto, dove -come per incanto- parrebbe guarito. Elsa è come minimo autistica ma recita la sua parte come “la scema del villaggio”: occhi strabuzzati, strane espressioni,una continua "grattarola" (scabbia? allergìe? pulci?) smorfie,svenimenti. Una pena, povera ragazza. Ortrud è il clone di Frau Blucher, carattere immortale di quel capolavoro che fu “Frankenstein Junior” di Mel Brooks, e ci sta: tant'è che la Herlitzius, piccola ma focosa interprete, è stata di gran lunga la migliore in campo.
Il basso René Pape autorevole ma in dificoltà sugli unici due acuti della parte, un generalone prussiano in divisa, Telramund un poveraccio , interpretato miseramente da un baritono facile alla stecca, di nome Tomasson.
A fronte di un simile allestimento, di quelli fatti in fotocopia tra Salisburgo, Monaco, Berlino e tutta l'area controllata da Frau Merkel, diciamo un Lohengrin da Eurozona, come si può parlare di epica romantica, di luce, come magnificamente scrisse Baudelaire nel 1860 dopo aver ascoltato il Lohengrin a Parigi:
«Mi sentii liberato dai legami di pesantezza e ritrovai la straordinaria voluttà che circola nei luoghi alti. Dipinsi a me stesso lo stato di un uomo in preda ad un sogno in una solitudine assoluta, con un immenso orizzonte e una larga luce diffusa. Un’immensità con il solo sfondo di se stessa. Allora concepii l’idea di un’anima mossa in un ambiente luminoso, ondeggiante al di sopra e molto lontano dal mondo naturale .”
Con Guth abbiamo invece un Lohengrin buio, spento, immerso totalmente nelle psicosi e nelle stressanti disavventure mentali d'un regista cervellotico.
Veniamo al protagonista : Jonas Kaufmann. Un grande attore, doppiamente grande perchè capace di credere fino in fondo a questa regìa stupida e inutile. Dal suo apparire, rannicchiato, alla sparizione, una presenza carismatica,fragile, intensa. Promosso a pieni voti. Vocalmente siamo un pò al di sotto . Kaufmann sarebbe un tenore lirico se non gonfiasse la voce per sembrare il tenore eroico che Natura non gli concede di essere. Non ne possiede lo squillo, non ne possiede la gamma , la volumetrìa né la stazza. Inoltre, adotta qualche trucco per superare gli scogli più perigliosi (il la naturale di “Ein Ritter ich” nel Racconto , costretto a diventare “Ein Retter” ...da cavaliere diventando dunque un salvatore !?). Tuttavia al pubblico piace: in fondo, se il 7 dicembre questo simpatico giovanotto è lì sopra e svolge onorevolmente la sua parte, un motivo ci sarà. Fortunatamente il pubblico non è composto da maestri di canto e al naso arricciato di questi, corrisponde poi il plauso incondizionato della moltitudine.
Elsa , dopo due defezioni (che immagino siano dovute a raffreddori, vista la presenza della piscina in cui si sguazza da giorni e giorni), è stata il soprano Annette Dasch, convocata nottetempo. L'avevo già ascoltata nella stessa parte a Bayreuth, ed era peggio. Alla Scala la sua prestazione è andata crescendo, fino a un buon III atto. La voce è delicata, fragilina, non particolarmente attraente, spesso poco intonata (pessima l'aria del II atto, davvero troppe erano le note fuori armonia) però ha svolto molto bene la parte della ragazza “disturbata” , e formava con Kaufmann una copia tenera e patetica al tempo stesso, di quelle che il terrificante “sociale” (Dio ce ne scampi e liberi) propone in ogni dove, in Tv , al cinema, all'opera. Non mi interessa di vedere, Herr Guth, una coppietta che potrebbe benissimo far piangere la Barbara D'Urso o la Venier su un palcoscenico , per quello basta la Tv del Dolore.
Un velo pietosissimo si stenda sull'orrido baritono Tomasson e sulle sue stecche inconcepibili, dovute a un malcanto continuo. Voglio invece lodare nuovamente la magnifica Herlitzius come Ortruda, straordinaria nella tenuta generale e nell'espressione violenta, e René Pape, nonostante le difficoltà nel registro acuto.
Il maestro Barenboim ha diretto il Lohengrin come se pensasse ad altre 10 opere diverse, limitandosi o cercando di far quadrare i conti che, però, spesso non quadravano. Il I atto , fin dal terribile attacco, è stato un continuo arrancare disordinato, con improvvise soste ritmiche, singolari stand-by sonori vicini al silenzio, scatti improvvisi e ingiustificati, l'assenza preoccupante d'una visione d'assieme, d'una vera idea interpretativa. Chacun pour soi et Dieu pour tous. Condizionato dalla regìa? Ancora scioccato dai fischi del Galà-Bartoli? Non so. Sta di fatto che il suo Lohengrin non mi ha convinto per nulla, eccezion fatta per la scena del matrimonio e per il III atto, dove a tratti, nei momenti più lirici, emergeva il piglio del grande concertatore. Le sorti della concertazione hanno condizionato la resa alterna dell'orchestra Filarmonica della Scala che resta tuttavia la miglior compagine d'Opera italiana e forse mondiale. Non straordinaria la prova del Coro.
Al termine dello spettacolo, durante gli applausi finali, Barenboim ha deciso di eseguire l'inno italiano ASSENTE il Presidente della Repubblica, impegnato nelle consultazioni politiche. Una assurdità, che non sta in piedi e che ha trasformato la serata in qualcosa che somigliava moltissimo a una sagra paesana. Si consideri che , davanti alle telecamere di Rai5, abbiamo visto il povero Kaufmann "mimare" volenterosamente il testo (giustamente, non è tenuto a conoscerlo) e la Dasch, ancor più razionalmente..tacere sorridendo.
Pare che l'inno sia stato preteso dal Ministro Passera...un ministro che ci si augura torni a occuparsi di banche ,come del resto non ha mai smesso di fare.
Ricordiamo a tecnici , veri o presunti, che
nelle "Disposizioni generali in materia di cerimoniale" all'art. 34 (Inno nazionale) si legge : .... L'inno nazionale è eseguito, secondo Ie forme e le modalità individuate nella disciplina militare, alla presenza del Presidente della Repubblica....
La Traviata che ha inaugurato il Teatro di San Carlo disponeva , come un ricco piatto, di tutti gli ingredienti necessari per la riuscita della cena di gala: uno dei teatri più belli del mondo, una protagonista di sicuro affidamento Carmen Giannattasio, tra le giovani voci affermatesi oggi nel mondo, il tenore Saimir Pirgu come Alfredo, già applaudito in molte occasioni,il baritono Stoyanov, solido e valido professionista, la bacchetta di un giovane maestro molto quotato, Mariotti, la regìa di un noto cineasta molto amato in Italia, il turco Ozpetek. Purtroppo, le cose non sono andate come le premesse suggerivano.
Partiamo dalla direzione d'orchestra. Sinceramente il maestro Mariotti mi è sembrato in difficoltà , soprattutto nello stabilire un rapporto equilibrato tra buca e palcoscenico : troppi sfasamenti, troppi incidenti di percorso con attacchi non pulitissimi, intonazioni periclitanti, pesantezze, passaggi che non esito a definire bandistici. Traviata , proprio per la sua impostazione molto schematica e apparentemente lineare, tutta basata sull'uso continuo del ritmo di valzer, è un'opera molto difficile da dirigere. La tentazione è quella di seguire il dettato toscaniniano, quell'incalzare inesorabile e a tratti vorticoso, quella dinamica ampia e quegli accordi secchi, taglienti, che cadono come lame di ghigliottina sul dramma di Violetta Valéry e del demi-monde parigino. Toscanini però era uno e inimitabile, si devono cercare altre strade mantenendo una propria autonomia, se si può. Mariotti, in tutta sincerità, mi è parso confuso: a volte cercava di tirare il carro ma i cantanti chiedevano invece un maggior abbandon o, alla disperata ricerca di un sostegno amorevole.
Il regista Ozpetek e Carmen Giannattasio (Violetta)
Mi è parso che sia riuscita a imporre i propri tempi e i propri respiri la sola Violetta, Carmen Giannattasio, per una scelta legata alla sua sopravvivenza vocale. Il primo atto l'ha messa a durissima prova, forse l'emozione di cantare nel teatro dei suoi sogni di bambina (lei di Avellino, una carriera costruita caparbiamente su tanti errori di gioventù, tante crisi fortunatamente superate) , forse anche una vocalità ambigua, molto difficile da classificare: un fondo lirico con bruniture drammatiche nel registro grave, a tratti gutturale, scatti temperamentosi verso l'acuto e addirittura il sopracuto (peccato per il mi bemolle che è riuscito davvero male). Insomma , una Violetta che ha voluto dare molto, forse troppo fin dalle prime frasi, non possedendo ancora quella scaltrezza nel saper dosare le proprie forze e che si è man mano ritrovata in debito di ossigeno, giungendo abbastanza stremata al tremendo atto finale. La voce mi è parsa appesantita, forse stanca fin dall'inizio (prove onerose?) , comunque ben diversa dalla brillante e vincente Donna Elvira che avevo ammirato a Verona, appena cinque mesi fa. E poi, mio Dio, come si può conciare così una ragazza bella e spiritosa come la Giannattasio? Infagottata in sciammeriche orribili, a mezza via tra il copridivano e la tenda, truccata in maniera pesante, sosia di Lucia Annunziata nella scena della morte!! No, non si può.
Dopo un primo atto non fluidissimo, Saimir Pirgu è andato crescendo man mano, fino a tirar fuori un buon ultimo atto, soprattutto sulle temibili frasi “No, non morrai non dirmelo” . Nella cabaletta del II atto ha addirittura infilato un do acuto, anche se non perfettamente a fuoco.
Trionfatore tra i solisti è stato senz'altro il baritono Vladimir Stoyanov, che in tutta calma e con grande autorità ha risolto il personaggio di Gérmont padre, con voce molto timbrata e sicura in ogni registro.
Veniamo allo spettacolo, per quanto mi riguarda molto deludente. Le 'turcherìe' evocate da Ozpetek, le atmosfere proustiane tanto vagheggiate nelle interviste , le scene 'sontuose' annunciate in pompa magna si sono risolte e direi dissolte in grandi saloni con tappeti e narghilé, quattro vetrate assolutamente prevedibili, un giardino di casa Valéry che era in realtà il cortile, una casa di Flora identica alla festa del primo atto in casa di Violetta (con il balletto ridotto a TRE zingarelle, con una coreografia anche abbastanza scalcagnata....ma dov'è la sublime tradizione del San Carlo??), un letto solitario nell'ultimo atto. La regìa statica , senza soverchie idee, stranamente molto poco cinematografica (considerando il back ground del maestro) ….sarebbe stato meglio ambientare, che so, la festa di Flora in un bagno turco, se proprio Turchia doveva essere: almeno tra vapori e maioliche, avremmo visto qualche frak in meno e qualche chiappa in più (sto ovviamente scherzando: non che se ne senta tanto la mancanza di chiappe all'Opera...non si vede altro!!!).
C.M.von Weber, Der Freischuetz, regìa Calixto Bieito
Insomma , dov'era la grande novità della regìa? Dove erano le idee? Quale la sorpresa finale, anche quella annunciata in pompa magna....Nulla. Violetta muore, con la camiciona macchiata di sangue (a un passo dalla macelleria), gli altrio piangono, addirittura papà Gérmont in ginocchio davanti al suo letto.
Tra l'altro, il fatto che Gérmont padre fosse stato un amante di Violetta è una vecchia storia, déja vu....lo dice Alberto Sordi nell'immortale capolavoro “Mi permette babbo”, lo ripeté come regista di Traviata anche Massimo Ranieri....già visto, già fatto....
A volte un debutto può essere una ottima occasione per avvicinarsi con cautela e maggior concentrazione a un'opera di non facile esecuzione. E' quello che è avvenuto con il “Simon Boccanegra” di Verdi , per la prima volta diretto da Riccardo Muti all'Opera di Roma, teatro di cui- ricordiamo- egli è direttore a vita.
E' la prima volta , dopo una “Walchiria” alla Scala che recensii assai positivamente, che posso tranquillamente parlare di una eccellente esecuzione musicale da parte di un direttore d'orchestra che non ho mai amato molto.. Muti rinuncia completamente all'empito a volte bandistico che ha contraddistinto tutta la sua “prima maniera”, quel 'bataclan' erroneamente scambiato per passionalità mediterranea e invece frutto di una insensata imitazione para-toscaniniana , laddove i tempi dovevano essere serrati, i respiri affannosi, le strette isteriche e i clangori assordanti. Muti nel “Simon Boccanegra” è finalmente quello che sarebbe dovuto essere sempre: un concertatore attento, meticoloso e soprattutto mai invasivo nei confronti del canto. Il miracolo avviene grazie al debutto, cioè grazie a un'opera che in tutta evidenza il Maestro non aveva mai studiato se non in questa occasione, forse perchè ossessionato-ipotizziamo- dal confronto con il suo più diretto rivale, Claudio Abbado.
Muti concede corone i cantanti, segue con docile bacchetta, accompagna la grande scena di Amelia riuscendo a dipingere una marina genovese di rara bellezza, si trattiene nella vorticosa Scena del Senato, persino limitando le sonorità (che pur rievocano le telluriche atmosfere del Dies Irae nel Requiem) e cercando piuttosto colori tenui, morbidi, cupi ma non tenebrosi.
Un Simon Boccanegra asciutto, a tratti persino dimesso (se si conoscono e si apprezzano le edizioni dirette da Abbado, da Gavazzeni, da Santini e persino da Patané), ma rispettoso e umile: una versione di Muti che mi ha davvero sorpreso, positivamente. Così come lo stato di grazia dell'Orchestra e del Coro dell'Opera, che quando c'è Muti si trasfigurano.
Un cast eccezionale inserito in questo notevole contesto musicale: il baritono rumeno Petean, allievo di Giorgio Zancanaro, si è presentato come un Simone umanissimo, di nobile e vigorosa linea vocale, bellissimo timbro nonostante lo squillo sia latente nei momenti di maggiore accensione drammatica: il suo “E vo gridando pace” non ha la forza dirompente del tipico baritono verdiano (già? E dove sono i baritoni verdiani?) alla Cappuccilli, alla Taddei, per capirci, però Petean è intelligente , musicale e risolve con la forza dell'accento. Bellissimo il finale del duetto dell'agnizione e la scena della morte.
Maria Agresta è Amelia , ruolo ideale per questa artista sensibile e dotata di una voce angelica, dai pianissimi vincenti . Splendida nell'aria d'entrata e nel duetto con il baritono, perfetta direi nei duetti con Gabriele Adorno, intensa e delicata nella scena finale, la Agresta è sicuramente il miglior soprano lirico oggi in circolazione: voce vellutata di magnifico colore, estesa fino a un sicurissimo mi bemolle, duttile, intonatissima, dolce, espressiva. Non so quali altri aggettivi usare per lodarne le virtù. Unico neo, ma non è colpa sua: troppo statico il suo personaggio, ne è responsabile una inesistente regìa.
F.Meli (Gabriele Adorno)- M.Agresta (Amelia)
Che il tenore Francesco Meli fosse un grande artista , si è detto e sostenuto in tante occasioni e quand'era il caso anche puntualizzando certe esecuzioni meno riuscite, proprio perchè la sua è una delle vocalità più preziose oggi al mondo. Stavolta, senza se e senza ma, una esecuzione magistrale:a partire dalla dinamica interna del personaggio di Adorno, da quando entra alla scena finale, nonostante una regìa assente, Meli è riuscito a conferire una autorità straordinaria al suo Adorno. Vocalmente brillante e persino poderoso nel lucentissimo si bemolle di “Pel ciel! Uom possente sei tu” del Senato, Meli non ha trascurato una sola virgola espressiva, puntando sul carattere, impreziosito da mille controscene, espressioni giuste a seconda delle varie situazioni. Magnifiche le mezzevoci sulle perigliose frasi che siglano i duetti con Amelia e il finale “Padre!Padre!” , il migliore che io abbia mai ascoltato in teatro.
Non ha sfigurato e anzi ha colpito la bellissima vocalità di Dimitri Beloselsky , basso dal registro acuto magnificamente emesso, meno efficace nel registro grave. I suoi duetti con Simone sono stati l'acme drammatico dello spettacolo.
Non mi è piaciuto l'impacciato Paolo di Quinn Kelsey, una specie di Quasimodo dal vocione greve e tonante, mentre straordinarie le prestazioni dei comprimari “di lusso” Riccardo Zanellato , Simge Buyukedes come Ancella e il tenore Saverio Fiore, magnifico Capitano.
Regìa, si è detto, inesistente. A firma di Adrian Noble: cantanti schierati davanti al Maestro, occhi fissi sulla bacchetta (a parte Meli e qualche volta il baritono e la Agresta), una regìa come si poteva vedere 30 anni fa in qualsiasi teatro di provincia.
Belle le scene di Dante Ferretti: grandi pareti bugnate in stile genovese, fondale azzurro con il mare in lontananza, due grandi catene che pendevano dall'alto, luci calde e ben disegnate da Alan Burrett, costumi tradizionali e importanti a cura di Maurizio Millenotti.
In sala il duo Napolitano-Monti, che ricordano gli “inseparabili “ , omaggiati da una esecuzione garibaldina dell'inno da parte del maestro Muti.
Grandissimo e meritatissimo successo per tutti, eccezion fatta per qualche “buuh” al regista.
Grande festa al Teatro Verdi di Trieste in occasione della prima di “Barbiere di Siviglia” , musica di Gioachino Rossini, nell'allestimento in coproduzione con l'Opera di Roma , regìa di Ruggero Cappuccio, scene di Carlo Savi e costumi di Carlo Poggioli. Uno spettacolo vivido, colorato, semplice nell'impostazione a pannelli scorrevoli, lineare e diremmo pure essenziale, che lasciava largo spazio all'improvvisazione divertita di un cast davvero eccellente: Roberto De Candia quale corpulento e autorevole Figaro, uno scatenato Paolo Bordogna come Don Bartolo, la nobile Daniela Barcellona, in tutta la sua imponenza scenica e vocale, un brillante e musicalissimo Antonino Siragusa nei panni del Conte di Almaviva, Marco Vinco come Don Basilio, e per i personaggi minori la Berta di Rita Cammarano, Christian Starinieri come Fiorello e l'Ufficiale di Ivo Federico.
La direzione di Corrado Rovaris ha garantito un assetto molto controllato , dai tempi calibrati sulle possibilità e sulle capacità dei singoli interpreti, senza rinunciare al brio rossiniano e con tutti i tagli aperti, compresi quei recitativi che in effetti spiegano la “folle journée” .
(Barbiere di Siviglia, Opera di Roma, regìa:R.Cappuccio)
Si diceva uno spettacolo semplice nel suo impianto scenico ma per contro molto dettagliato nell'azione : i vari personaggi cantavano, ballavano, venivano commentati da un'azione mimica continua gestita da un gruppo di attori molto bravi, funambolici, forse un po' troppo invadenti durante un paio di scene (il duetto Figaro-Conte e Rosina- Figaro, per esempio, in cui scimmiottavano e commentavano ciò che in fondo già veniva esplicitato benissimo dai solisti). Di Cappuccio apprezzo molto il gusto nel gioco dei colori, tra luci e costumi (bellissimi , bisogna sottolineare), che rievocano le maioliche napoletane e soprattutto le porcellane di Capodimonte, tra azzurrini, rosa antichizzati, gialli tenui, bianco nelle varie gradazioni.
Liberi di fare “teatro”, anche aggiungendo alcune classiche gag di tradizione, i solisti si sono scatenati, trascinati in quella che si è subito manifestata come una gara di bravura. A essere pignoli, come sempre accade in questi casi, la fibrillazione e il “laissez-faire, laissez-passer” non sempre hanno mantenuto il filo dell'azione e quello musicale negli argini. Ogni tanto si debordava volentieri: Paolo Bordogna ha trasformato i recitativi secchi in grandi frasi in stile verdiano, allungando le note e caricandole, fino all'apnea di “Son qua, sooooon qua” nella Scena della Barba, tenuta fino all'esaurimento del fiato. Un vero tornado il Don Bartolo di Bordogna, persino con variazioni e puntature acute nel già difficile sillabato dell'Aria “A un dottor della mia sorte”. Diciamo un Don Bartolo giovane e baldanzoso, alla faccia del “vecchio tutore” tradizionalmente previsto. Il Figaro di De Candia era sullo stesso filone, leggermente più trattenuto, con una possente cavatina “Largo al factotum” , salutata da grandi applausi.
Daniela Barcellona , abituata ai grandi ruoli 'en travesti' rossiniani, è entrata con classe nel grande tourbillon, divertendosi e giocando soprattutto nel II atto. La cavatina di Rosina l'ha messa un po' in soggezione, tant'è che il si naturale acuto alla fine non è risultato vincente. Ma si è ripresa subito , forte di una esperienza di palcoscenico che in questi casi paga.
Un vero trionfo per Antonino Siragusa che possiede una grazia e una musicalità tali, da far dimenticare qualche suono “bianco” di troppo e qualche acuto schiacciato nel naso. Il suo Conte si allontana dal modello aulico ed elegante del nobile hidalgo, e si avvicina piuttosto a una maschera buffa, ma sempre rispettando le note e le agilità vorticose , soprattutto nel grande Rondò finale “Cessa di più resistere”, risolto con straordinaria bravura.
Più debole il Don Basilio di Marco Vinco, scenicamente interessante ma vocalmente meno a fuoco degli altri buffi.
Brave le seconde parti e il Coro diretto da Paolo Vero, preciso e sonoro nei suoi interventi.
In un solo anno il nuovo sovrintendente, Claudio Orazi, è riuscito nell'impresa di rilanciare e restituire credibilità a uno dei più bei teatri d'Italia e sicuramente, oggi, il teatro dalla migliore acustica. Il premio è giunto dal pubblico triestino, che alla fine dello spettacolo ha tributato un grandissimo successo alla serata, con lunghi applausi scanditi.
(Barbiere di Siviglia, a destra:P.Bordogna, Opera di Roma)