Hanno suscitato un certo scalpore le mie recensioni dell'ultimo Muti all'Opera di Roma, o meglio le mie considerazioni positive sulla sua direzione dopo anni e anni di stroncature anche feroci. C'è chi ha parlato di revisionismo storico, c'è chi ha strabuzzato gli occhi, c'è chi ha addirittura tirato in ballo San Paolo sulla via di Damasco. In molti mi chiedono quali sostanziali differenze vi siano tra le esecuzioni di Riccardo Muti prima della sua venuta a Roma e adesso, che si è stabilmente collocato presso il teatro della Capitale con la nomina (un po' menagrama) di “direttore a vita”.
Rispondo volentieri. Non vi è nulla di mistico o di visionario: non ho avuto sogni o illuminazioni improvvise. Tutte le volte che entro in un teatro, vorrei fosse chiaro, io entro in una Chiesa e così mi comporto, cercando di concentrarmi sul frutto del duro lavoro altrui: direttore d'orchestra, solisti, regista, Coro, Orchestra e tutti coloro che partecipano alla realizzazione di questo complesso meccanismo che si definisce Opera lirica.Sul podio, tanto per essere ancora più chiaro, potrebbe anche esserci Lino Banfi, o Rosy Bindi, o Valerio Mastrota (quello che fa pubblicità ai materassi in Tv). Non appena iniziata la prima battuta musicale ogni pregiudizio, ogni considerazione a latere della questione meramente esecutiva cessa e lascia il posto alla realtà dei fatti artistici, quelli che sono. A volte non so nemmeno i nomi in locandina, e li controllo alla fine, per non lasciarmi condizionare.
Fatto sta che su Riccardo Muti io credo di aver compiuto uno studio molto approfondito, che parte non già dall'ammirazione bolsa e anche un po' ottusa di un “fan” qualsiasi (rispettabile sì ma pur sempre monomaniaco) ma dai fieri attacchi di un detrattore della prima ora.
Di Muti (parlo del primo Muti, quello del Maggio Musicale fiorentino e del ventennio scaligero, arrivando ai primi anni 2000) non mi è mai piaciuta la spocchia e la boria : mi ha sempre fatto pensare a un anziano preside stizzoso o a un professore pieno di sé, con la voglia pazza di buttare fuori della classe l'allievo non prono alle sue discettazioni. Questo dato molto umano si riflette puntualmente sul Muti direttore e concertatore di un melodramma e ha dato luogo, ritengo, a esecuzioni boriose e spocchiose, in primis. Sul podio, mostrando un cipiglio volutamente cupo e minaccioso, mai un sorriso, la mascella volitiva e vagamente ducesca , il gesto rigido e a tratti violento, come se al posto della bacchetta vi fosse una mazza ferrata....questi ingredienti che fanno parte del personaggio,anche artatamente costruito per le case discografiche e la necessaria propaganda, me lo hanno via via reso antipatico e così, fatalmente, le sue esecuzioni.
Il tanto conclamato Verdi di Riccardo Muti è stato forse l'autore più strapazzato , ad onta di un preteso rigore filologico che - sempre seguendo le indicazioni pubblicitarie costruite intorno al “personaggio” - doveva essere la grande eredità di Toscanini, nientemeno. Ecco quindi gli accordi secchi e taglienti, le strette di concertati o finali d'atto simili a bombardamenti, i piatti in prima linea, le rullate di timpano simili a terremoti, le grancasse quasi sfondate, il leggendario finale del II atto di Aida a Monaco (1977) in cui si ode il barrito degli elefanti da parte degli ottoni, ecco il cannone utilizzato nel Dies Irae del Requiem, ecco il gong in Norma che simula il crollo delle stoviglie nel Barbiere di Siviglia, i finali di Puritani o Vespri che rievocano il terremoto di Messina. Insomma, un “toscaninismo” deleterio che non giovò al Verdi di Muti, surclassato dalla vigorìa nobile e pulita di un Gui, di un Votto, di un Boehm o di un Sawallisch persino (vedi: Macbeth) , dalla morbidezza poetica di un Abbado, dalla forza tellurica ma limpida di un Kleiber, ma alla fine...siamo sinceri fino in fondo....anche dalla regolarità classica e dalla perfezione dei tempi di un Serafin, di un Guadagno, di un Levine.
La vicenda scaligera ha profondamente segnato Riccardo Muti: a parte i numerosi insuccessi spacciati dalla stampa (venduta e asservita:vergogna! Corriere della Sera e Repubblica in testa) per trionfi, quando i fischi piovevano a frotte in occasione di ogni Prima, io direi che il vero dramma si consumò quando vi fu la ribellione dell'intero teatro (certamente pilotata, come ogni rivoluzione lo è!), contro Muti, reo di voler imporre Mauro Meli per l'incarico di sovrintendente. 700 dipendenti votarono all'unanimità per la rimozione del plenipotenziario direttore musicale. Muti resistette , caparbio, altri 15 giorni. Vi fu una umiliante raccolta di firme davanti alla Scala, con delle manciate di voti a favore e un tragico disinteresse. Muti dovette cedere e, conoscendo il carattere del Nostro, credo sia stata una botta micidiale, di quelle che segnano l'anima e il fisico.
La proposta romana fu vivifica e Muti visse l'incarico presso il teatro capitolino come una sfida . Nei colloqui preliminari alla firma del contratto, impose tutta una serie di diktat: via questo e via quello, ma la richiesta più sintomatica fu quella di inaugurare la stagione non più a gennaio, bensì il 6 dicembre, un giorno prima del fatidico Sant'Ambrogio, il giorno cioé della Prima alla Scala.
Ecco, in questa richiesta c'è tutto Muti, l'orgoglio del tipico uomo del Sud e anche la tipica permalosità.
Roma ha accolto Muti con un abbraccio affettuoso ed entusiasta, soprattutto l'ochestra e il Coro del Teatro. Il carattere romano è fondamentalmente pigro e indolente, ma è buono. Non dimenticherò il primo atto di Otello, che fu il debutto di Muti a Roma: i violini suonavano come se fossero uno solo, gli archi andavano assieme come MAI prima di allora, persino i frak sembravano più lucidi e stirati. L'ottavino, collocato alla sinistra di Muti come il konzertmeister,a un certo punto suonava all'inpiedi, colto da estasi. Accadeva anche a Gazzelloni, quando era primo flauto alla Rai di Roma:me lo raccontò Mehta. Un primo atto fantastico, perfetto: e Dio solo sa quanto è difficile il primo atto di Otello. Si notava un altro significativo dettaglio: gli ottoni. Quando era alla Scala, Muti otteneva dagli ottoni scaligeri delle sonorità secche, puntando sullo staccato veloce e su suoni che potremmo definire “a trombetta”, chiari, basati più sullo squillo che sulla densità. A Roma è diverso: gli ottoni, tromboni, corni ma soprattutto le trombe, hanno un suono più morbido e pastoso, per nulla petulante. Il suono nobile e sontuoso che Verdi richiede.
L'ho notato in Macbeth, in Nabucco, in Attila, in Simon Boccanegra (il finale del Prologo, spesso trasformato in Festa di Piedigrotta) , e ora nei Due Foscari.
Inoltre Muti ha aggiunto una malinconia, una poesia, una delicatezza negli accompagnamenti che prima gli era quasi del tutto sconosciuta. Lo si accusava, a ragione, di travolgere i cantanti, di non farli respirare, di sommergerli con sonorità impossibili (vittime illustri furono la Studer, Zancanaro, Merritt, la Dessì e Pavarotti in Don Carlos, Coni, la Fabbricini, ma potrei citare schiere di cantanti costretti a lottare per la sopravvivenza). A Roma, quasi per incanto (ma grazie anche al rapporto di piena e gioiosa collaborazione instauratosi con l'orchestra, che è una delle migliori al mondo per l'Opera, diciamolo) gli assoli dei solisti sono assecondati con estrema cura e moderata sonorità, senza quella stizzosa violenza che pur si riscontrò in passato.
Mi hanno riferito di condizioni di salute non buone e di delicate operazioni subìte dal maestro Muti. Non voglio entrare nello specifico perchè sono problematiche personali e vanno rispettate come tali. Ma sono certo, come sempre succede, che talune meditazioni scaturiscono quando si avverte il pericolo, non quando si è nella miglior forma. Ascoltando con attenzione la scena finale del Simon Boccanegra e anche la morte del doge Foscari, “Quel bronzo ferale”, ho avvertito un nuovo afflato: non più la voglia di dimostrare qualcosa, ma la necessità di far pensare a qualcosa...che è diverso. E qui Muti e Verdi si sono ritrovati, generando quell'emozione che trasferita in chi ascolta compie un piccolo miracolo: quello di trasformare un detrattore in sincero ammiratore.
Dopo l'ottima prova del “Simon Boccanegra” ecco un nuovo titolo per l'anno verdiano all'Opera di Roma, “I due Foscari”, ed ecco un nuovo successo per Riccardo Muti che indubbiamente sta attraversando un momento di grazia, in stretto connubio con le compagini dell'Opera di Roma che lo adorano e quindi lavorano con miglior lena.
Il trionfatore della serata è stato il maestro concertatore e al termine dello spettacolo si è levato un coro unanime da palchi e platea: “MU-TI!MU-TI!” , segno inequivocabile che il bersaglio era stato colto in pieno.
Il nuovo corso di Muti, che coincide con il suo arrivo a Roma dopo i travagliati anni scaligeri, prevede un impatto meno garibaldino e l'attenuazione di quegli effetti “bataclan” che tante volte avevamo riscontrato anche e soprattutto nell'esecuzione delle opere verdiane. Ora c'è un abbandono e un seguire con amorevole cura il canto, cercando i pianissimi e le sonorità soffuse, giocando su quei contrasti e sui colori che fanno la grandezza di Verdi, troppo spesso trasformato in un compositore da guerriglia. Splendido quindi l'inizio dell'opera, misterioso e cupo, con il Coro che deve dare subito il senso dell'oppressione e della tetraggine imposte dalla Venezia dei dogi. Muti cerca e impone queste sonorità in molte occasioni, nelle arie e nel grande concertato che chiude il secondo atto, fino alla conclusione dell'opera , “Quel bronzo ferale”, la prova generale del finale di Simon Boccanegra. Il momento apicale della serata è stato a mio giudizio la ripresa in pianissimo del grande duetto tra Jacopo Foscari e Lucrezia, “Speranza dolce ancora”, in cui perfettamente fuse all'orchestra ridotta a un sussurro le voci di tenore e soprano hanno davvero emozionato il pubblico.
Luca Salsi
Il cast allineava quanto di meglio oggi offre il mercato, con protagonista il baritono Luca Salsi , uno dei migliori baritoni della sua generazione, dalla vocalità naturalmente corposa e scolpita nella dizione. Qualche fatica in zona acuta compendiata però da un fraseggio sempre molto accurato e da una intonazione perfetta, unita a una recitazione attenta a delineare un doge anziano, sì, sofferto anche ma non malconcio fino alla parodìa, come talvolta abbiamo visto. Peccato il costume del terzo atto, un vestaglione bianco tagliato come i pigiami del bebé, che lo ridicolizzavano alquanto.Magnifici la prima aria ("O vecchio cor") , il duetto con Lucrezia Contarini, il finale dell'opera.
Tatiana Serjan
Non abbiamo trovato Tatiana Serjan in gran forma, stavolta. Forse stava male, non so (il teatro non ha annunciato alcun malessere, ad ogni buon conto) ma troppe sono state le grida in sostituzione dell'acuto normalmente girato, troppi i pianissimi senza appoggio fino a spezzarsi, troppe le difficoltà nelle agilità, fino a una catastrofica esecuzione dell'ultima aria “Egli è spento” , in cui eravamo discesi nell'orrida valle delle perle nere. Ci dispiace, poiché avevamo apprezzato la Serjan in Macbeth e nell'Attila. Sarà un momento di stanchezza.
Come Jacopo c'era il tenore Francesco Meli, di splendido smalto nei centri e nei primi acuti, perfetto nella scansione drammatica delle frasi e sempre efficace nell'accento. Qualche falsettone in luogo della mezzavoce, lo si perdona ;peccato però che la voce venga travolta nei concertati e quando l'orchestra ingrana la quinta, il che farebbe pensare a un ruolo forse troppo oneroso per questa voce così preziosa. Tuttavia un personaggio risolto con gran classe e con nobiltà.
Ottima la parte comprimariale con il basso Luca Dall'Amico perfetto nella parte dell'inesorabile Jacopo Loredano, lo squillante Barbarigo di Antonello Ceron, il perfetto Fante di Saverio Fiore, la Pisana di Asude Karayavuz, il Servo di Donato di Gioia.
Lo spettacolo, firmato da Werner Herzog con le scene e i costumi di Maurio Balò, mi ha convinto solo a tratti. Una bella scena iniziale, con Venezia innevata e un significativo Leone di San Marco incombente. Poi man mano, il “gelo del potere” voluto da Herzog e realizzato attraverso queste “neviere” collocate ovunque (nella cella di Jacopo, nella stanza del Doge persino) è rimasta una intenzione non del tutto chiara. Quando sulla morte del Doge, sui cupi rintocchi del campanone, abbiamo visto cadere fiocchi di neve sulla città lagunare, il pensiero è andato subito allo Schiaccianoci di Ciakovsky e...addio effetto verdiano. Un po' goffi e ingombranti alcuni costumi del Coro e di qualche comprimario, non perfettamente indovinati quelli del Doge. Si registra un grande successo e l'applausometro ha visto su tutti primeggiare Riccardo Muti, seguito a ruota da Luca Salsi, Francesco Meli,il regista, la Serjan, il Coro, l'Orchestra.
Le leggende di cui è ricco l’immaginario collettivo operistico indurrebbero ingiustamente a ritenere l’“Otello” di Verdi un titolo “inavvicinabile”. I problemi esecutivi non sono effettivamente pochi e non si limitano alla difficoltà nel reperire un protagonista in grado di sostenere il ruolo principale. Oltre alla complessa orchestrazione, tipica del tardo Verdi, che ha stimolato la fantasia dei più grandi direttori, dal punto di vista espressivo appare anche urgente non ridurre la tragedia shakespeariana a una sfilata di tre stereotipi: il geloso belluino, il cattivo sempre bieco e ghignante e l’ingenua angelicata (e un po’ oca) che rimane vittima di uno dei più celebri ed ottusi "femminicidi" della storia dell'opera. Con tali premesse, piace l’approccio del Teatro Verdi di Pisa che, con evidente consapevolezza della difficoltà ed importanza del titolo, ha accuratamente scansato la routine e la banalità, avventurandosi in una nuova ed ambiziosa produzione che, pur tra alcuni evidenti limiti, si è imposta soprattutto per i meriti della regia e del protagonista.
L’allestimento è stato affidato a Enrico Stinchelli, non nuovo nelle vesti di regista teatrale, ma più noto per essere - tra le molte altre cose - il conosciuto co-animatore del popolare varietà radiofonico operistico “La Barcaccia”. Tanto per sgombrare il campo da un altro luogo comune (che in questo caso farebbe arricciare il naso verso chi si avvicina alla regia d’opera provenendo da altri mondi, più o meno paralleli, come il cinema, il canto, la critica, la direzione d’orchestra o altro ancora) va detto subito che Stinchelli ha realizzato un ottimo spettacolo, ispirato e curato in ogni dettaglio. Gli approcci minimalista e “tecnologico” della regia sono ben calibrati tra loro, dando vita ad un “Otello” che è soprattutto tragedia dei singoli e in cui la consueta - e talvolta ingombrante - cornice veneziana è ridotta al minimo (come nel leone proiettato sul sipario chiuso), sostituita da una stilizzazione di fondo, in cui prevale un gusto visivo che richiama talvolta l’Oriente, del tutto plausibile visto che l’opera è ambientata a Cipro e non sul Canal Grande. La scena fissa si basa su un elemento a forma di stella a cinque punte al centro del palcoscenico, sopra il quale si abbassa in alcune scene uno schermo circolare su cui vengono proiettate immagini (per chi ha dimestichezza con il rock richiama quello che caratterizzava i concerti dei Pink Floyd). Le proiezioni, per le quali è utilizzato anche un sipario a velo che si alza e si abbassa nel corso della recita, creano momenti di grande suggestione, in particolare nella scena iniziale della tempesta (davvero esemplare nel rendere la grandiosità del momento con originalità e con il minimo impiego di mezzi) e nel finale ultimo, dove è di poetico impatto il richiamo al mare iniziale, che placido ed inesorabile si richiude sulle vite stroncate di Otello e di Desdemona.
La cura minuziosa delle luci di Gerald Ordway contribuisce a disegnare efficacemente le atmosfere lungo l'intero corso dello spettacolo. Unici episodi più deboli il (sempre problematico) “Fuoco di gioia” con movimenti e coreografie un po’ kitsch e soprattutto il “sogno”, che cade nel cliché - già utilizzato da parte di altri regist in vari titoli e puntualmente mai riuscito - di voler mostrare la proiezione del primo piano di un interprete. Così il primissimo piano del faccione di Cassio che dorme sullo schermo circolare di cui si diceva sopra ha un impatto troppo “naturalista” rispetto a tutte le immagini utilizzate, più sfumate e suggestive.
Ma si tratta di dettagli che non inficiano uno spettacolo ottimamente risolto.Il tenore Antonello Palombi ha affrontato Otello con una spavalderia e una sicurezza vocale (quanto meno dal punto di vista del colore, del peso, dell’ampiezza e della proiezione del suono) che sorprende. Il ruolo gli si addice molto di più rispetto ad altri, più lirici, che ha affrontato nel passato anche recente.La voce, oltre che potente, è scura, anzi scurissima e grazie all’acustica ideale del Verdi produce suoni di impressionante volume. Palombi ha pure apprezzabili intenzioni espressive nei momenti più lirici e sfumati, che dal punto di vista interpretativo risultano i più riusciti: dal duetto del primo atto con Desdemona a, soprattutto, “Dio, mi potevi scagliar” e “Niun mi tema”. Proprio per questo dispiace che in tutti i passaggi più concitati e violenti, nel quale si scatena l’ira di Otello, la consapevolezza di tanta potenza lo induca a ridurre la dinamica ad un perenne ed ostentato fortissimo, che trasforma il protagonista in una specie di brutale energumeno. Anche se non è certo spiacevole ascoltare una voce grande, con tali mezzi non ci sarebbe stato bisogno di spingere in maniera così insistita e, alla lunga, monotona, così da arrivare persino a penalizzare la chiarezza della dizione. Da questo punto di vista sarebbe stato opportuno un incisivo intervento del direttore, che invece ha lasciato il protagonista dilagare liberamente.
La bacchetta di Claudio Maria Micheli, in effetti, non si è segnalata per un significativo ed originale approccio alla partitura, anche se ha preso progressivamente quota nel corso dello spettacolo, dopo un inizio caratterizzato dalla tipica cautela della prima, nel quale il direttore sembrava impegnato soprattutto a tenere sotto controllo l’insieme, tra i problemi del baritono di cui si dirà e gli sbandamenti dell’orchestra e soprattutto del coro, a tratti deficitario nei concertati. Nella seconda parte dello spettacolo l’esecuzione è parsa più rilassata, con un corretto e piacevole accompagnamento di tutto l’ultimo atto.
Tra gli elementi che rendevano interessante la produzione pisana vi era anche il debutto assoluto come Desdemona di Cinzia Forte, già apprezzata in ruoli lirico-leggeri. Il soprano ha avuto il merito di non forzare il proprio strumento, nemmeno quando si doveva confrontare con quello inevitabilmente più poderoso del tenore. La voce, un po’ vuota in basso, è sembrata mancare della rotondità e pienezza di suono che sarebbero ideali per la parte. Nel primo atto, in particolare, una percepibile tensione ha reso l’emissione meno fluida rispetto a quanto si è ascoltato in seguito. Anche quella della Forte è stata comunque un’esecuzione in crescendo, con accenti sempre appropriati (“Non son ciò che esprime quella parola orrenda”) e un’apprezzabile esecuzione della Canzone del Salice e, in generale, di tutto l’ultimo atto.
Carlo Guelfi sin dalle prime battute di Iago ha mostrato un timbro inaridito, che di baritonale pareva avere ben poco, con un’esecuzione che pareva tesa a sopravvivere grazie alla precisione della dizione e al mestiere nel costruire il personaggio. Era però percepibile anche un preoccupante affanno nel reggere pressoché ogni frase. Puntuale, all’intervallo, è arrivato l’annuncio dell’indisposizione che, come accuratamente precisato dallo speaker, si era manifestata sin dall’inizio dell’opera. Una prestazione, quindi, che non è possibile giudicare.
Migliorabile il Cassio di Cristiano Olivieri, eccellente l’Emilia di Valeria Sepe e apprezzabili gli altri interpreti dei ruoli minori, Angelo Fiore (Roderigo), Emanuele Cordaro (Lodovico), Juan José Navarro (Montano) e Andrea Paolucci (Un araldo).
E’ persino inutile registrare l’ennesimo sold out per il Teatro Verdi, il cui pubblico ha tributato consensi per tutti, con un cordiale riconoscimento anche a Guelfi per avere professionalmente portato a termine la recita e caldissimi applausi a Palombi.
PISA – TEATRO VERDI – INDISCUSSO SUCCESSO PER UN OTELLO RICCO DI COLPI DI SCENA
di Stefano Mecenate
Difficile restituire l’emozione di un pubblico entusiasta di fronte ad una rappresentazione che ha conquistato dall’inizio alla fine gli spettatori portandoli al parossismo di un inarrestabile sequenza di applausi non appena il sipario si è chiuso sulle ultime note dell’ultimo atto.
Inarrestabile e calorosissima come davvero ha meritato questo Otello che ha vissuto, nella seconda serata, anche l’incubo del forfait di ben due capisaldi dell’opera come Iago e Desdemona.
Ma andiamo per gradi.
Il doppio “tutto esaurito” e l’assenza dell’opera dai cartelloni del Verdi di Pisa da ben quarantasette anni, dirigeva Ermanno Wolf Ferrari, ha certamente contribuito a creare un clima di attesa e di curiosità anche perché a firmare regie e scene era Enrico Stinchelli, il popolare conduttore radiofonico della “Barcaccia”, vera e propria trasmissione “cult” per tutti gli appassionati d’opera.
E non ha deluso. Una regia ricca e curata all’interno di una scenografia essenziale ma arricchita da effetti speciali di grandissima suggestione ha fatto sì che questo dramma vivesse sulla scena con quel pathos e quell’energia che la musica verdiana proponeva.
Partitura difficile quella dell’Otello, penultimo capolavoro di Giuseppe Verdi su libretto di Arrigo Boito, affermandosi subito per l’eccellente costruzione drammaturgica, per il tessuto musicale in continua evoluzione,per l’assoluta maestria verdiana nel giocare con le convenzioni musicali, evocandole per stravolgerle, per le sperimentazioni che la pervadono, a partire dal principio strutturale della forma ‘aperta’.
A dirigere un’ottima Orchestra Arché che ha interpretato magistralmente questo Otello integrale, nella partitura scaligera del 1887, con la riapertura dei tagli d’uso, compreso il grande concertato, il Maestro Claudio Maria Micheli, di casa all’Opera di Roma e al Parco della Musica, oltre che nei massimi teatri nazionali e internazionali. Una lettura appassionata e appassionante, rigorosa e magica in certi momenti nei quali le suggestioni passavano senza soluzione di continuità dalla scena alla musica in un continuum quasi ipnotico.
Eccellenti le perfomance degli interpreti principali a partire da un autorevole Antonello Palombi, vero protagonista della scena internazionale che sul palcoscenico pisano ha, in entrambe le recite, primeggiato conquistandosi il meritato trionfo di un pubblico non avaro di complimenti nei suoi confronti. E’ stato un Otello impeccabile, generoso nella voce come nella interpretazione di questo complesso personaggio, oltre che un grandissimo professionista riuscendo a dialogare perfettamente con due protagonisti giunti a “salvare” la seconda recita.
Già, perché il già indisposto Carlo Guelfi, considerato il miglior baritono della sua generazione, riconosciuto sulla scena internazionale come interprete di riferimento del repertorio verdiano e verista che proprio con il ruolo di Jago inaugurò la stagione 2004/2005 al Metropolitan di New York, dopo l’ottima prova data nella prima di venerdì, a causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute ha dovuto suo malgrado rinunciare alla replica domenicale lasciando il posto ad un bravo Sergio Bologna che ha vestito in sua vece i panni di Iago. Una prova da vero professionista che ha confermato il positivo giudizio che avevamo dato di lui in occasione del Rigoletto presentato a Pisa nel 2011.
Il debutto nel ruolo di Desdemona del soprano Cinzia Forte, fra le più affermate interpreti del belcanto italiano, che nella prima di venerdì ha trovato unanime consenso nel pubblico, non ha potuto replicarsi domenica; anch’ella, colta dai sintomi influenzali, ha dovuto arrendersi costringendo il teatro ad un rocambolesco recupero al volo (sì perché in meno di 24 ore è stata prelevata direttamente dalla Finlandia e catapultata a Pisa) della moscovita Olga Romanko, apprezzata e raffinata interprete dello scenario lirico Internazionale, che, generosamente, si è offerta di indossare gli abiti di Desdemona dandone una interpretazione vocale e scenica davvero pregevole.
Buone anche le prove offerte dagli altri interpreti dell’opera: Cassio è il tenore Cristiano Olivieri; Roderigo è il tenore Angelo Fiore; nei ruoli di Lodovico, Montano ed Emilia tre giovani interpreti provenienti dall’esperienza del progetto Opera Studio: il basso Emanuele Cordaro, il basso Juan Josè Navarro e il mezzosoprano Valeria Sepe e del coro del Festival Puccini preparato dal M° Leonardo Andreotti, mentre pertinenti ed efficaci interventi coreografici della Imperfect Dancers Company firmati da Walter Matteini.
I costumi sono firmati Latina Opera Events e Atelier Il Sipario; il disegno luci è di Gerald Agius Ordway.
Otello: Teatro Verdi di Pisa, 15th February 2013
Tuesday, 19 February 2013 07:49 administrator
Giuseppe Verdi’s Otello is one of those operas bound to give nightmares to general managers of major opera companies whenever they decide to present it. The most obvious hurdle is to find a protagonist able to survive one of the most arduous roles in the entire tenor repertoire; given the complexity of the score, it is also an opera that has always attracted the greatest conductors, even those of Germanic extraction who normally keep at arm’s length from most of the Verdi canon, if not almost the entirety of the Italian repertoire. Finally, considering its authoritative Shakespearean roots (as well as Boito’s crafty libretto, which many a scholar considers a dramaturgical improvement over its source), Otello is a huge test even for the most consummate production team. With such a premise it is no wonder that despite its popularity this opera does not often appear in the programmes of regional opera companies: one more reason to applaud the Teatro Verdi of Pisa for its decision to accept the challenge and, all things considered, to come out of it with its head held high.
The production was entrusted to Enrico Stinchelli, a name that is immensely famous in the Italian operatic world, especially as a co-host of the longest running show in the history of Italian radio, La barcaccia. In the last several years Stinchelli has also successfully added the activity of stage director to his already multifaceted career. This Otello was a classic example of how to create a good-looking, entertaining and often gripping production even with a relative paucity of funds at one’s disposal. The set was basically limited to a platform (or better several layers of platforms) in the shape of a star, elegantly surrounded by other stage elements suggestive of the Muslim world. The most conspicuous component was the presence of a round screen above the platform, onto which a number of images were projected, creating magical moments, such as the vision of the ship at the mercy of the waves at the beginning of the opera, a true example of how to leave the audience gasping for its realism (and one can understand how the Brothers Lumière’s first viewers could feel when watching the legendary train running towards them) using elementary technological means. Not every projection was so successful: showing a close-up of Cassio having an erotic dream during Iago’s narration was the only misstep: it was not necessary and too reminiscent of Zeffirelli’s similar solution in his Otello film. Stinchelli did not limit himself to playing with technology, as the interaction among the characters, while keeping within a traditional frame, suggested a meticulous study of their relationships. The elegant costumes and especially Gerald Agius Ordway’s crafty lighting brought a significant contribution to the success of the mise-en-scène.
In addition to the visual aspect, the other winning element of the production was the protagonist himself. I had previously heard Antonello Palombi in several other operas, and while always professional, I had always found something questionable in his performances. As Otello, Palombi was excellent. He displayed a dark, rich, opulent instrument that darted to the top with security, maintaining the same tonnage and colour of his middle register. The “Esultate” was vigorous, ringing and electrifying in its impetuosity, and even the acciaccatura on the B 4 he accurately nailed. His characterization of Otello was noble, if not yet truly individualized or, on the very highest level consistently tragic. The stakes are, indeed, higher for Otello than any other tenor role in the Italian repertoire. To say that one wants more authentic intimacy in the love duet, more pain in the voice for “Ora e per sempre addio”, a deeper sense of degradation in “Dio! Mi potevi scagliar”, and greater desolation in the final act, is, in this case, not so much to criticize the singer as to note how revealing a tragedy this is. Palombi’s attempt to follow Verdi’s dynamics was manifest; except in some shouted phrases (for instance he neglected the ppp required by the composer at the beginning of “Dio, mi potevi scagliare”), Palombi displayed a variegated singing, with beautiful mezzevoci and soft floating notes even above the stave. I appreciated other often neglected details such as the perfect execution of the dotted notes denoting sarcasm in phrase “Perdonate se il mio pensiero è fello” in the act III duet with Desdemona. He seems to have grasped what is central to the work: the image of a noble character gradually reduced to a baser instinct. In a few words, despite some excesses (that perhaps a stricter, more authoritative conductor could have reined in), he gave us a human and grieving Otello, as opposed to the raving maniac of a certain tradition. All in all, a satisfying performance.
Cinzia Forte, a soprano of some renown in the lyric coloratura repertoire, was making her debut as Desdemona. Her soprano, does not possess the ideal weight for the role; it is too light and its natural barycentre too high for the tessitura of the part. In addition to this, her timbre is somewhat generic and characterized by a fast vibrato that partially spoiled the long legato of so many of Desdemona’s phrases. To her credit, she never artificially forced her voice, not even when confronting the column of sound coming from her partner’s throat. Dramatically, she had good intentions, and the sense of vulnerability present in her voice was her best asset: one could sense actual tears in her uttering “Guarda le prime lagrime”, and her long scene in Act IV was deeply moving and heartfelt. Yet, vocally this role does not seem like a match made in heaven for her.
Carlo Guelfi spent the first two acts, which are the busiest for the role of Iago, virtually speaking, with a parched timbre and no trace of overtones. During the intermission his indisposition was announced. Perhaps his ill health may have contributed to his fatigued top, but it is undeniable that such dryness of timbre has unfortunately characterized his performances for several years.
Valeria Sepe made the most of her few chances to shine as Emilia (her “Otello ha ucciso Desdemona” was enough to make one wish to hear her in a bigger assigment), while Cristiano Olivieri did not convince as Cassio, a part that should be cast with a full lyric tenor with a beautiful timbre. Angelo Fiore (Roderigo), Emanuele Cordaro (Lodovico), Juan José Navarro (Montano) and Andrea Paolucci (un araldo) fulfilled their supporting duties with honour.
Conductor Claudio Maria Micheli seemed more focused in keeping together soloists, orchestra and chorus (the latter being not perfectly synchronized with the pit on a few occasions) than in displaying his personal conception of the opera. Although he showed energy at the obvious points, and highlighted some details that often pass unnoticed (such as the acciaccaturas in the orchestra under Desdemona’s “ Scendean gli augelli a vol dai rami cupi”), so much of the opera lacked structural clarity and rhythmic detail.
All things considered, the Teatro Verdi can claim to have scored a goal by virtue of a production worthy of being revived for other companies and a tenor deserving to be heard in this role in the major international opera houses.