Quando si parla di Attila, si finisce per considerare la bellezza indiscutibile di alcune pagine musicali, già dense e cariche di quel pathos che ha reso memorabili le grandi “frasi verdiane”, fin dal magnifico Preludio , continuando con la Tempesta e l'entrata del tenore, l'aria trasognata del soprano (“O del fuggente nuvolo”) , il Sogno di Attila con la veemente cabaletta, i magnifici concertati e soprattutto quel finale così essenziale e perfetto, in cui si realizza la predestinata fine del protagonista.
Sono pagine stupende, senz'altro, ma nella sua interezza e soprattutto nella sua verità drammaturgica, Attila non ha goduto della stessa considerazione di altre opere verdiane. Spesso e volentieri l'esito è stato quello d'una passerella vocale, campo di battaglia per bassi e soprani tonanti, tenori scalpitanti e baritoni “sibemolleggianti” , se mi è consentito questo neologismo vociologico. A volte vere e proprie gare canore a discapito della regìa.
Mi raccontò il baritono Carroli che a ogni recita il basso Christoff, non appena Ezio si allontanava da lui al termine del grande duetto “Vanitosi, che abietti e dormienti”), scagliava una lancia con infallibile precisione a quasi 20 cm dal tallone del generale romano. “Non ti preoccupare” , diceva Christoff al collega alquanto atterrito, “ Io lanciere scelto delle guardie di Re Boris” . Effetto notevole, ma ai tempi del grande basso bulgaro le regìe si facevano così, chacun pour soi et Dieu pour tous.
Il grande basso bulgaro Boris Christoff
Attila presenta temi di grande attualità, nonostante ci riporti ai tempi dell'Impero Romano: la violenza, le trame politiche, i giochi di potere, la sopraffazione, il tradimento. Quando Ezio canta “Sovra l'ultimo romano, tutta Italia piangerà” sembra quasi di udire i lamenti per l'odierna crisi, oggi- in fondo- in Italia piangono un po' tutti ,a ragione o a torto.
Io ho sottolineato fin dall'inizio il tema trainante della bruta violenza barbarica. “ Urli, rapine, gemiti, sangue,stupri, rovine, e stragi e fuoco d'Attila è gioco” canta il Coro degli Unni all'inizio dell'opera, sulle ancora fumanti rovine di Aquileia. Non è uno scherzo : vedremo scene di violenza piuttosto esplicita, nell'atmosfera buia e fangosa rievocata dalla fine del Preludio, l'arrivo pauroso delle truppe di Attila, il flagello di Dio assiso su un trono metallico, le vergini guerriere prostrate ai suoi piedi e offerte in premio , capitanate da Odabella.
I caratteri sono molto forti e scolpiti con la consueta perizia dal grande uomo di teatro: il soprano è la sorella di Abigaille, l'altra grande virago, e forma con Lady Macbeth l'ideale trio dei soprani drammatici di agilità dalla tessitura perigliosa e dagli accenti aspri. Ho cercato di mantenere comunque l'aspetto femminile in maniera piuttosto marcata: spesso questi soprani appaiono come dei “veri uomini” cui manca giusto un bel paio di baffoni . La virago apparirà dunque come Ygritte nel “Trono di spade” o come l'amazzone Ippolita, sufficientemente sexy per non essere confusa con un Unno. Attila, dal canto suo, non è soltanto un personaggio temibile e violento: è piuttosto un re orgoglioso, fiero, consapevole della sua forza e del suo indiscutibile carisma. La gelosia del tenore, marito di Odabella, deve essere ben motivata: Attila, fin dai tempi gloriosi del film con Anthony Quinn e Sophia Loren, ha sufficiente fascino per instillare un lecito dubbio negli spettatori; e se Odabella ne fosse realmente sedotta? Certo, alla fine sarà lei a trafiggerlo, vendicando così la morte del padre ma ...chissà cosa avvenne nella tenda del fascinoso barbaro.
Il carattere più debole resta quello del tenore, in bilico tra il suo lato irredentista e l'amore per una Odabella, presunta fedifraga, “preda del mostro”. Ma Verdi, benigno, gli affida frasi e arie memorabili, rendendolo persino protagonista della fondazione di Venezia, che avviene puntualmente al termine della grande scena d'entrata, “ Ma dall'alghe di questi marosi, qual risorta fenice novella, rivivrai più suberba più bella, della terra e dell'onde stupor”. E' quindi,a suo modo, un piccolo eroe e sarebbe grave errore privarlo di questa dignità.
Cupo, meditabondo, afflitto dai suoi contrasti, un grande solitario è Ezio, il generale che trama: ho pensato alla grande solitudine di un uomo afflitto dalla smania di potere e che alla fine tradisce l'unica persona che, paradossalmente da nemico, lo apprezzava di più. Come accade in politica, purtroppo.
Verdi riesce, come suo solito,a dipingere molto bene le atmosfere dei luoghi: nella sua musica si avverte la bruma, la nebbia, l'acqua che circonda l'intera vicenda e ne diventa quasi motivo conduttore. Con l'aiuto di un mago della scenotecnica come Pier Paolo Bisleri, che ben conosce gli elementi propri della sua terra: il legno, la roccia, il fango, e con le preziose proiezioni dinamiche di Gerald Ordway e Alex Magri, abbiamo cercato di rievocare il clima di Aquileia e dei suoi dintorni, le paludi di Rio Alto, i boschi, le radure, puntando sulla realizzazione di un film opera che sfuggisse agli schemi rigidi del primo Verdi, ma fosse un dramma estremamente continuo e scorrevole, con un solo intervallo al termine del I atto.
L'opera è stata concepita inizialmente per essere rappresentata all'aperto, di fronte alla meravigliosa Basilica di Aquileia, progetto che verrà realizzato il prossimo anno e di cui le recite al Verdi costituiscono un ghiotto preambolo e una eccitante sfida.
Sono particolarmente felice della magnifica disponibilità e professionalità dei complessi triestini, della qualità del suo laboratorio e di coloro che vi lavorano; la sicurezza di un maestro come Donato Renzetti, già protagonista di memorande recite di Attila, l'eccellenza di un cast che si impegna battuta dopo battuta. E' un grande sforzo per l'anno verdiano , in un anno non facile per l'Opera in Italia e per la Cultura in genere. Mentre i teatri licenziano parte del personale e tagliano titoli per mancanza di fondi (non elargiti da uno Stato tendenzialmente sordo), Trieste ne aggiunge e reagisce alla crisi per omeopatìa. Scelta coraggiosa e salutare per tutti coloro che amano il teatro d'Opera, uno dei nostri vanti storici.
Ho sempre sostenuto che una buona tecnica sia in grado di assicurare anche una buona interpretazione. Il corretto uso del fiato, la posizione "alta" dei suoni, la capacità di modulare il proprio strumento sono i dati precipui per poter risolvere quanto previsto dall'autore, e l'espressione è segnata da precise dinamiche musicali.
Mariella Devìa è ancor oggi, alla sua bella età, il miglior soprano leggero in circolazione: nulla a che vedere con talune starlettes terribilmente sostenute dai battages pubblicitari e tragicamente penalizzate dalle loro prestazioni pubbliche.
Il problema però si pone con Norma, che NON E' un SOPRANO LEGGERO. Norma è il prototipo esatto del soprano drammatico di agilità, una tipologìa vocale che a fianco dei caratteri tipicamente belcantistici propone accenti, fraseggi e un mordente tipicamente drammatici, antesignani di quei personaggi che Verdi e successivamente gli autori del naturalismo avrebbero esaltato. Ho volutamente fatto cenno al Verismo poichè è noto, dalle cronache del tempo, che Giuditta Pasta riusciva a commuovere il pubblico della Scala proprio aggiungendo al proprio canto : pianti, singulti, accenti che oggi vedremmo bene per una Santuzza più che per una Norma. Questo è un grande paradosso: sul principio dell'800 si recitava e si cantava in maniera più "veristica" di quanto si sarebbe fatto oltre un secolo più tardi!
Ma torniamo alla Devìa. Non possiede un timbro scuro, pieno, corposo ma chiaro. Una Norma chiara non va bene, mi si dirà? No, non va bene, perchè come suo contraltare dovremmo avere una Adalgisa soubrette e un Pollione contraltino, il che non può essere. La Devìa non possiede l'agilità "di forza" , conditio sine qua non per risolvere frasi incendiarie come "Tutti, i romani a cento a cento", "Vanne sì, mi lascia indegno", gli allegri dei duetti con Adalgisa: tutte le volte che deve salire in agilità, lo fa alla maniera dei soprani leggeri, cioè -per l'appunto- alleggerendo l'emissione e schiarendola, un sistema perfetto per Amina, Elvira dei Puritani, Adina in Elisir, Fiorilla nel Turco in Italia ma non per il carismatico ruolo di Norma. La Devìa emette gli acuti in perfetta posizione alta ma non ha la "canna" sufficiente per dare ai suoi do e si naturali l'autorità e la grandiosità necessarie. Diciamo pure che per guidare e convincere un'orda di barbari si supporrebbe una autorità diversa.
Un altro sostanziale problema della Devìa è per l'appunto l'accento in relazione al suo fisico, gracile e minuto: : era il problema della Gruberova, accusata di essere una Norma formato mignon, è il problema della Norma-zanzara della Bartoli, è un problema per ogni Norma di ascendenza "leggera".
Non parlo nemmeno di volume, sebbene gli acuti della Devìa sono giusti ma non certo fulmini di guerra: la Caballé aveva ben altri decibel, e così la Sutherland, la stessa Anderson, per non andare troppo indietro nel tempo.
Fatto sta che il pubblico bolognese ha tributato un trionfo all'amata Mariella, con un paio di solitari "buh" al termine della cabaletta "Ah bello,a me ritorna" (insolitamente eseguita in maniera prudenziale e persino timorosa) e altri "buh" , più nutriti stavolta, al termine dello sbiadito terzetto che chiude il primo atto. In effetti il momento peggiore della serata. Risolti al meglio tutti i passaggi più lirici, dove l'emissione in pianissimo ha giovato sia alla Devìa che alla sua partner, Carmela Remigio, con un ottimo risultato nel secondo atto e in particolare nel duetto "Mira o Norma".
Il tenore Machado canta con proprietà e gusto (nonostante un brutto do gridato nell'aria del primo atto), ma anch'egli è leggero per nascita e censo: con una determinata voce ci nasci, non puoi trasformarla a tal punto da cambiare la categoria dai "piuma" ai pesi "massimi". In troppi punti faceva pensare (anche guardandolo) a Nemorino, o a Elvino, agli -ino e non agli -ONE.
Il basso Sergey Artamonov funzionava fino a che non doveva salire, poi sugli acuti....addio....la voce si strozzava.
Efficace Gianluca Floris come Flavio, anche se con troppe note "aperte", e buona la Clotilde, Alena Sautier, che aveva persino più voce di Norma....assurdo.
Lo spettacolo di Tiezzi gettava sul dramma una secchiata di gelo, come una grande fotografia sbiadita. Pose plastiche per comparse e Coro, strani gesti, Clotilde e i bambini afflitti da narcolessìa, Adalgisa che pareva spesso in preda al colpo della strega, Norma mite e disincantata come in un party . Belle le scene di Bisleri e i dipinti di Schifano ma mal utilizzati dalla regìa, belle le luci di Gianni Pollini.
Il maestro Mariotti ha curato molti dettagli e ha aiutato in maniera incredibile tutto il cast, conferendo un bello sprint laddove ha potuto (certo, la cabaletta di Norma al rallentatore non è stata sua responsabilità). Buona la prova dell'orchestra e del Coro ancor di più, anche se qualche strumento a fiato non è sempre intonatissimo e l'acustica bolognese...non perdona.
N. Porpora Sinfonia da "Meride e Selinunte" "Come nave" aria di Siface da "Siface" R. Broschi "Chi non sente al mio dolore" aria di Epitide da "Merope" N. Porpora Ouverture da "Germanico in Germania" G. F. Händel "Lascia la spina", aria di Piacere da "Il Trionfo del Tempo e del Disinganno" F. M. Veracini Ouverture N. 6 in sol minore - Allegro L. Vinci "Cervo in bosco" aria di Climaco da "Medo" L. Leo "Qual farfalla", aria di Decio da "Zenobia in Palmira" F. Araia "Cadrò, ma qual si mira", aria di Demetrio da "Berenice" N. Porpora "Usignolo sventurato", aria di Siface da "Siface" C. H. Graun "Misero pargoletto", aria di Timante da "Demofoonte" A. Scarlatti Sinfonia di concerto grosso n. 5 in re minore - Spiritoso e staccato - Adagio - Allegro A. Caldara "Quel buon pastor", aria di Abel da "La morte d'Abel" N. Porpora Overtures dalle cantate "Gedeone" e "Perdono, amata Nice" - Adagio - Spiritoso andante - Allegro L. Vinci "Quanto invidio la sorte... Chi vive amante" Recitativo e aria di Erissena da "Alessandro nelle Indie" N. Porpora "Nobil onda" aria di Adelaide da "Adelaide"
“Sacrificium” , l'album dedicato ai castrati, approda a Roma nel grande auditorium di Santa Cecilia e la Bartoli fa il suo ingresso travestita da Fanfan la Tulipe, con ampio mantellone nero foderato di rosso, camicia bianca a sbuffo e stivaloni, procedendo di aria in aria a un piccolo strip, fino a presentarsi nel bis immancabile “Son qual nave” di Broschi con ampi pennacchi, lanciati in aria uno a uno durante gli osanna del pubblico.
E sotto al vestito? Qualcosa c'è, in effetti...un gran temperamento, che poi è la dote migliore per chi voglia diventare qualcuno o qualcosa nel mondo dello spettacolo.
La Bartoli, come è noto, si è costruita un personaggio attorno a un non-repertorio (dove si esegue Germanico in Germania, Zenobia e Palmira o il Siface?) e con una piccola voce. Già, perchè privo della dovuta amplificazione, lo strumento della diva non è più che modesto, buono forse per piazzarla in una finale di concorso ma senza vincere. La Bartoli è un fenomeno assolutamente mediatico: i dischi Decca, che la presentavano 20 anni fa in bluson noir e con look vagamente zingaresco, oggi la propongono in ogni maniera possibile: in posa Anita Eckberg sotto la fontana di Trevi, in frak , marmorizzata e androgina nell'omaggio agli evirati cantori di “Sacrificium”, calva e in clergyman in puro stile Angeli e Demoni nel suo ultimo album "Mission" , insomma....un 'abile gioco di travestimenti buono per creare un perfetto mito discografico. In fondo, nello scaffale del melomane, i cofanetti della Bartoli fanno bella mostra di sé, a prescindere dal contenuto; e , come tutti i salmi finiscono in gloria, così quasi tutti i concerti della Bartoli finiscono con standing ovations e trionfi di pubblico, felici tutti di naufragare nei gorghi della simpatica Cecilia . Gli acuti squittiscono? Manca la polpa? Ma che voce è? ....considerazioni da vociomani inveterati, da 'fissati' , da nostalgici. La Bartoli vince ridacchiando e saltellando, il biglietto è ampiamente pagato dallo show.
Intendiamoci: la cantante è molto intonata (salvo qualche perdonabile scivolone nei bis finali), espressiva, sa variare e nei cantabili, nelle arie “di portamento” , è persino plausibile quando la tessitura giunge in suo soccorso, cioé quando canta nel registro medio (che è il suo registro d'origine). Quando iniziò la Bartoli era appunto un mezzosoprano di agilità, di voce non grande ma abbastanza omogenea, destinata a un repertorio limitato ma comunque splendido, che partendo da Monteverdi poteva approdare all'opera napoletana del 700, a Mozart, a talune opere di Rossini. Se si confronta la voce della prima Bartoli, quella ancora svincolata dalle acrobazie forsennate e isteriche degli ultimi tempi, con la attuale si nota un solo dato eclatante: il “sacrificium” è stato quello della sua vocalità, prosciugata e stravolta da un abuso di suoni non appoggiati e paurosamente “indietro”. Ascoltate questa Bartoli di 23 anni fa: la voce è più omogenea, piena, persino il colore è più bello, gli acuti non sono così vuoti e pigolanti come quelli attuali. Poteva essere la vera erede di Teresa Berganza. Giusto le "facce" sono rimaste le stesse, ma quelle sono difficili da eliminare....
Basta oggi una compagine come quella scaligera guidata da un direttore “vero” come Barenboim, ed ecco la vocina travolta dall'onda sonora, esattamente come la nave di tante arie di paragone del repertorio barocco. E giù fischi, come da tradizione "Scala".
Con la ventina di strumentisti del complesso “La Scintilla” , striduli e spesso stonicchianti (cos'erano i corni....) , questo pericolo non si corre e la Bartoli può vocalizzare allegramente, facendo felice il pubblico dell'Accademia di Santa Cecilia, che la adora.
Esito trionfale, dunque, come da copione.Ma...sotto al vestito....