Domenica 25 Settembre 2016 15:50 |
Ci risiamo. A pochi giorni dall’”evento” a Napoli che ha scatenato la discussione sul tenore Jonas Kaufmann, apparso in non felici condizioni vocali, eccoci qui a commentare e ad analizzare in breve un altro caso speciale: l’Aida di Verdi in una nuova edizione discografica che vede protagonisti i complessi del Maggio Musicale Fiorentino con Zubin Mehta sul podio, Kristin Lewis (Aida), Veronica Simeoni (Amneris), Carlo Colombara (Ramfis), Ambrogio Maestri (Amonasro), Giorgio Giuseppini (il Re), Maria Katzarawa (una Sacerdotessa) e Juan de Léon (il Messaggero), ma soprattutto Lui...il tanto discusso Andrea Bocelli. Già leggo nei pensieri dei melomani “talebani” , gli irriducibili: “ma per carità! Canti le canzonette!” , “Non è un tenore!”, “ Ha avuto successo per il suo handicap...”....e altre cose che pur abbiamo letto e ascoltato con le nostre orecchie, decine di volte. Cattiverie? Malignità? Come le vogliamo classificare siffatte affermazioni? Il mondo dell’Opera e direi la Storia dell’Opera sono costellati di casi del genere: Maria Callas, oggi definita “Divina” da tutti (o quasi) conservava gelosamente le lettere di insulti ricevute nel corso della sua carriera. Le pubblicò Renzo Allegri in un suo libro: erano insulti abbastanza ripugnanti, ora sull’aspetto fisico ora sulla voce . Tipico. Si diventa divini dopo la morte, in ogni caso.
Andrea Bocelli non ha avuto successo per il suo handicap ma per la tenacia con cui ha perseguito la sua passione musicale, a prescindere dall’handicap. Mi azzardo a dire che è assai meno handicappato di molti suoi colleghi, per essere più chiari: ho conosciuto tenori assai meno agili in scena, assai meno musicali, assai meno pervasi da quel “fuoco sacro” senza il quale, mi dispiace, sei un impiegato del mondo dello spettacolo e non un vero Artista. Cominciamo quindi a dire che Bocelli il suo successo se lo è ampiamente sudato e meritato: certi mercati internazionali sono assai più cinici e spietati di molti detrattori, se non piaci....ciao! Avanti un altro. Per non parlare di un mero, basso calcolo economico: si guadagna assai più cantando “canzonette” in tournée con 20\30 date in un colpo solo che con tre recite d’Opera dopo un mese di prove! Non che Bocelli abbia rinunciato a questa attività, ma l’impegno sull’Opera non ha prodotto certo i guadagni siderali e “facili” di cui sopra. Poteva vivere tranquillo in un alveo nazional-pop , senza il pericolo di essere massacrato da noi cultori della voce “avanti” e del Belcanto. Cultori che, diciamocela poi tutta in fondo, sono pronti a digerire degli orrori inqualificabili ma che storcono il naso davanti ai cofanetti prodotti da Andrea Bocelli e dal suo staff.
Ahi ahi, melomania...ninfa gentile....
Sta di fatto che ascoltando questa Aida non mi associo assolutamente a coloro che gridano allo scandalo. Intanto, la prima cosa che ho fatto è stata quella di sfogliare attentamente la partitura (che in questi giorni mi sta incollata a fianco, visto che tra poco più di un mese produrrò come regista una mia nuova Aida nel magnifico Teatro Astra di Gozo a Malta, scusate la citazione autoreferenziale ma alle cose che amo...ci tengo) . Visionata la partitura si notano e vanno ribaditi alcuni concetti: Verdi creò con Aida uno dei capolavori più massacrati ed equivocati dell’intero catalogo operistico. Nulla a che vedere con centinaia, migliaia di esecuzioni tronfie, fracassone, pesanti. Verdi cesellò raffinatezze timbriche e di colori, dinamiche preziose e un susseguirsi di indicazioni che quasi costantemente vengono tradite dagli interpreti. Lo capirono i Grandi: tra gli altri soprattutto Gui, De Sabata,Karajan, Schippers,Gigli, Bergonzi, Callas, Simionato, e in tempi recenti Pappano e Kaufmann, capaci di regalare al mondo un’Aida finalmente INTIMA, NOBILE e RAFFINATA. Scusate, ma queste tre parole vanno scritte in maiuscolo. Zubin Mehta ha alle sue spalle centinaia di Aide ma almeno una discografica STORICA: quella con Corelli e la Nilsson in stato di grazia. In questa sua ultima fatica lo ritroviamo con braccio un pò appesantito (soprattutto nei famosi Ballabili, che sono sì precisi e puliti ma non così brillanti come in passate occasioni) ma sempre aristocratico nella visione complessiva dell’Opera. I primi due atti appaiono lievemente dimessi, forse anche poco misteriosi (per esempio nella scena della consacrazione della spada), insomma siamo lontani dalla cattedrale di suoni meravigliosi costruita da Karajan o dalle magìe di De Sabata, e tutto sembra appiattirsi verso una comoda routine. Poi, come per incanto, a partire dal III atto Mehta prende quota e vola verso le vette cui ci aveva abituati (l’evocazione del Nilo è sempre stato un asso nella manica del direttore indiano) e perfetto risulta il IV atto, con Coro e Orchestra del Maggio magnifici in ogni sezione.
Vocalmente delude un pò l’Aida di Kristin Lewis, che pare una Leontyne Price in sedicesima, non abbastanza convincente nel registro grave, fiacca nelle impennate, un pò anonima in generale. Peccato, perchè il suo esordio fiorentino anni fa in Trovatore lasciava presagire un futuro diverso. L’Amneris di Veronica Simeoni non piacerà ai fanatici delle Amneris “virili”, la voce potrà risultare un pò troppo chiara e poco carnosa: ma è una fine interprete, precisa, espressiva, legata al segno scritto, molto intensa nel caratterizzare una donna innamorata e giovane, Deo gratias, lontana dal cliché delle Amneris “uomo”. Si impone Ambrogio Maestri come Amonasro, un suo ruolo d’elezione, e lo stesso Carlo Colombara come autorevolissimo Ramfis, anche se viene penalizzato da un inspiegabile “allontanamento microfonico” nella scena della spada (“Nume custode e vindice”) , tanto che Bocelli lo sovrasta in primo piano.
Radames non è esattamente il ruolo in cui vedrei bene Bocelli in teatro: caso mai Edgardo, che non so perchè non ha mai inciso né cantato. Gli manca l’ampleur naturale del mezzo (vedi: Corelli, Filippeschi, Del Monaco) , molti suoni (sulla vocale “e” soprattutto) sono schiacciati e rimandano a un lirismo diverso. MA, ciò precisato, bisogna anche dire che il suo “Celeste Aida” , spiacente per i detrattori, è alla fine il miglior Celeste Aida assieme a quello di Kaufmann, per lo meno il più fedele alle intenzioni di Verdi: perfetto il si bemolle “in morendo” della chiusa, tenuto fino alla fine della Coda orchestrale, giusta l’espressione, ottimi la parte acuta e l’accento impresso a questa aria spessissimo equivocata da parte di schiere di tenori, smaniosi solo di mostrare i muscoli. Completamente da respingere la critica numero uno ascritta a Bocelli: “non è un tenore”. Su quale base poggia questa affermazione? E’ tenore a tutti gli effetti: come timbro, estensione e vocalità. Si può obiettare che non sia un tenore adatto a ruoli drammatici, forse per la qualità piuttosto chiara del timbro e per i decibel espressi senza microfono, ma non si può negare che in questa Aida canti tutto ciò che è stato scritto da Verdi ed è quello che conta in un disco fatto in studio. Quanto al tema dei confronti, a noi melomani tanto caro: meglio non farli mai, per il bene di tutti. A volte si hanno inattese e spiacevoli sorprese.
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Lunedì 12 Settembre 2016 23:50 |
La due giorni napoletana di Jonas Kaufmann, il superdivo dell'Opera, si conclude al San Carlo di Napoli con quello che doveva segnarne il trionfo finale, un concerto di canto in un glorioso teatro e si risolve invece in una débacle vocale. Seguo Radio3 in diretta e via via che si consuma l'evento mi rendo conto di quale scotto debba pagare un Divo per essere tale, soprattutto quando l'organizzazione di tali spettacoli viene affidata a persone armate certamente di buona volontà (e mi riferisco a chi ha articolato la tabella di marcia del tenore) ma totalmente digiuni delle regole che ogni cantante lirico deve seguire prima di affrontare un impegno canoro.
Ascolto attonito le quattro canzoni , “Parlami d'amore Mariu' “, “Torna a Surriento”, “Parla più piano” , “Core 'ngrato” , in cui la voce di Kaufmann si presenta opaca, sfibrata, e al limite dell'afonìa man mano che si succedono le note...Poi è lo stesso interprete a rivolgersi imbarazzato al pubblico: “Scusate.....oggi ho parlato troppo” ...non ce la fa più, è chiaro, lo hanno fatto parlare troppo e ha ragione!
Mi chiedo: ma lo sanno i signori del “Mattino” di Napoli che un tenore prima di affrontare un concerto deve stare zitto, tranquillo, magari rilassato in albergo?? Dai solerti cronisti di Radio3 si intuisce lo spaventoso “tour de force” napoletano: conversazione di tre ore con gli studenti di non so quanti conservatori al mattino, sballottato a San Pietro a Majella dal maestro De Simone , che gli sottopone alcuni incunaboli e lo intrattiene su fondamentali questioni musicologiche legate all'uso del mandolino (ma Kaufmann non è Giovanni Carli Ballola!) , immagino poi pranzi , pizze , interviste, altre chiacchiere a destra e a sinistra e le grida “Canta! Canta!” , per strappare un “Non ti scordar di me” al termine delle chiacchierate, almeno quello. E poi le prove prima del concerto, e ancora chiacchiere, domande....senza un attimo di sosta. Kaufmann, chi lo conosce lo sa, non si sottrae: è un tedesco di Monaco, che è la Napoli della Germania; un ragazzo estroverso, disponibile, il suo italiano è fluente, la parlantina incessante.
Si può obiettare: la colpa è anche sua se si è reso disponibile. Non sono del tutto d'accordo: la colpa è del sistema, di questo “carosello” cui bisogna sottoporsi per forza, per pubblicizzare un disco, per fare passerella, come se un cantante lirico possa essere paragonato a una soubrette televisiva o a un attore di cinema. Non è così. Non è un robot, l'organo vocale obbliga a precisi riposi, ritmi del tutto diversi. Senza arrivare agli estremi di un Del Monaco, che prima di un impegno vocale non parlava nemmeno più e si esprimeva attraverso bigliettini di carta, o di Kraus che lasciava passare quattro giorni tra una recita e l'altra, dico: non si poteva lasciare tranquillo il Divo almeno il giorno del concerto?
Niente da fare. La macchina da guerra è implacabile, l' “organizzazione” decide e lo immola senza pietà. Davanti al pubblico del San Carlo e al più vasto pubblico di Radio3 si consuma il sacrificio e si propone, irriconoscibile, la voce che aveva stupito in Wagner , in Verdi,in Puccini.
Da estimatore e anche buon conoscente di questo simpatico e generoso Artista posso solo consigliargli di non accettare mai più in futuro simili “caroselli”. Stress di questo genere hanno contraddistinto le carriere di molti suoi colleghi, da Gigli arrivando a Domingo e a Pavarotti: ma erano diverse le organizzazioni vocali. Domingo e Pavarotti, ognuno a modo suo, non hanno mai cantato utilizzando il “capitale” ma sempre gli “interessi”; dovrei addentrarmi in una spiegazione troppo tecnica, tuttavia chiunque ascoltando attentamente Domingo e Pavarotti, paragonati a Kaufmann , avvertirà da parte loro un uso molto accorto dei suoni “alti”, chi un po' più nel naso chi più nelle cavità facciali. Con quel sistema ti affatichi assai meno. Kaufmann, per scurire i suoni, utilizza cavità più basse, e per essere al 100% della forma deve riposarsi maggiormente, perchè parlare stanca: quando si parla la voce batte sempre su uno stesso punto o quasi delle corde vocali. Già nel clip della conversazione mattutina per i ragazzi delle scuole, si sentiva in Kaufmann una voce stanca, figuriamoci poi la sera.
Dopo lo sconcerto, sottolineato dall'imbarazzo dei commentatori, Radio3 ha trasmesso un estratto dal “Siegfried” di Wagner, cantato meravigliosamente da Kaufmann in forma, il confronto era impietoso . Ho spento la radio e ho raggiunto la mia mèta, pensando a lungo. Poi ho deciso di scrivere queste poche righe, con la speranza che possano servire a qualcosa e a qualcuno.
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Lunedì 05 Settembre 2016 09:54 |
I libri che riguardano il mondo della musica seria e dell'Opera sono generalmente agiografìe di questo o quell'interprete, enciclopedìe, raccolte, saggi particolari destinati a un pubblico molto ristretto e selezionato. A parlare sono spesso gli interpreti: “ho fatto questo, ho fatto quest'altro...” ; oppure i musicologi, i critici, i giornalisti, tutti ammantati delle classiche vesti di saggisti, opinionisti, professori. E' raro che l'Autore d'un volume dedicato alla Musica sia un organizzatore musicale e teatrale, un “addetto ai lavori”. Ricordo un libro , molto aggressivo e a tratti infame, scritto dall'ex agente di Pavarotti, in cui il grande tenore veniva di fatto demolito e svillaneggiato da chi, tra l'altro, aveva ampiamente guadagnato nascosto dietro la sua ombra. Pubblicazioni di questo genere diventano spesso il pretesto per scatenarsi in vendette personali, per sfogare rancori.
Il libro di cui ora vi narro, uscito da pochissimo , “Musica al rovescio”, edito da Ponte alle Grazie, è al contrario un delicato e a tratti commosso resoconto stilato da Mauro Meli, uno dei più noti direttori artistici italiani, legato al Teatro Lirico di Cagliari da lunga e felice consuetudine ma attivo da anni su più fronti: da Ferrara al Regio di Parma, alla Scala di Milano (anche come Sovrintendente) , docente di Economia delle aziende culturali presso l'Università di Ferrara.
Meli è uno dei protagonisti di primissimo piano del periodo che precede la grande crisi dei teatri italiani, quando la realizzazione di uno spettacolo contemplava l'utilizzo di un consistente budget finanziario per scene, costumi, solisti di rango, grandi direttori d'orchestra. Negli anni delle cosiddette “vacche grasse” , quando i teatri non badavano a spese, i debiti si accumularono in maniera esponenziale , Meli fu al centro di pesanti polemiche e accusato di essere uno dei principali artefici dei disastri amministrativi presso i teatri in cui era in forza. Io stesso non lesinai critiche ma ebbi modo di avvicinare Meli e di scoprire una persona molto aperta e disponibile a discutere, su ogni argomento, anche il più spinoso e per nulla interessato a sottrarsi di fronte a domande che potessero metterlo in difficoltà.Mi piace, in questa occasione, riprendere una intervista che effettuai con il maestro Meli tre anni fa, contenente un paio di passaggi inerenti l'argomento :
“-Tra gli epiteti più ricorrenti quello di “Mister Deficit”. Vogliamo chiarire bene la
questione del pesante bilancio in rosso che ha caratterizzato la Sua gestione cagliaritana?
“Facciamo un po' di chiarezza su queste cifre, perchè davvero sono volati numeri in
maniera molto disinvolta . Intanto quando io sono arrivato a Cagliari vi erano 10 milioni di
Euro di budget, quando sono andato via dopo nove anni il budget era arrivato a 35 milioni
di Euro. Non solo: da 2000 abbonati si passò a 12000 abbonati , cioé 3 volte gli abbonati
della Scala! Lei capisce che per una città con 160.000 abitanti avere qualcosa come
250.000 biglietti venduti!? Non è cosa da poco. Il successo era addirittura clamoroso.”
-Ma il deficit?-
“Parliamo di queste famose perdite. In realtà sono stati 4 milioni di Euro, a fine mandato
e, ci tengo a dirlo, non per motivi gestionali. La causa principale fu dovuta ai ritardi dei
contributi da parte dei soci e degli sponsors: per prima la Regione, che dava qualcosa
come quasi 12 milioni di Euro ma con un anno e mezzo di ritardo, producendo la
necessità di richiedere prestiti alle banche con interessi passivi spaventosi. La stessa
identica cosa è accaduta a Parma e consideri che il Teatro di Cagliari è messo molto
meglio rispetto al Regio, con una struttura organizzativa solida e molto ben funzionante.
Ma cosa si può fare se i progetti non possono decollare?”
Sfogliando il libro scritto da Mauro Meli non troveremo nessuno spunto polemico, nessuna révanche, piuttosto un lucido e grato ricordo legato a tanti personaggi illustri incontrati lungo questo importante percorso.
Claudio Abbado è ovviamente il primo, in testa alla lista: strettissimo fu il loro rapporto di collaborazione, tante le occasioni musicali memorabili, tanti gli episodi condivisi, stima e amicizia fino all'ultimo giorno di vita del grande Maestro. Sui nomi Meli è abbastanza reticente, quando si tratta di rivelare tragiche gaffes: non sapremo mai chi sia quell'importante uomo politico interessato alla “fiSarmonica di Berlino” , al punto da immaginarne un trasporto speciale per l'ingombrante quanto inusitato “strumento”. Né sapremo per opera di chi vennero determinate le dimissioni da Sovrintendente del Teatro alla Scala dopo quasi un biennio di impegno presso la più importante Fondazione lirica italiana. Nel libro scopriamo alcuni aspetti inediti di molti grandi miti: un Andrea Bocelli che non ne vuole sapere di entrare in scena in Bohème a Cagliari, quasi spinto a forza , tanto era intimidito e impaurito dall'impegno che lo attendeva; un Domingo che pur di partecipare alla festa del “Viaggio a Reims” con Abbado accetta di partecipare come comparsa, nei panni di Re Carlo X, ma senza dire niente a nessuno; il potentissimo Valentin Procinsky, agente di alcuni tra i più grandi nomi del firmamento internazionale, che per convincere Lorin Maazel a non abbandonare una produzione poco gradita, intreccia uno stralunato e surreale balletto, librandosi sul palco come una goffa farfalla.
Le pagine scorrono, una dietro l'altra come un album fotografico e quando si materializza l'immagine di Carlos Kleiber, cioé di uno dei massimi direttori d'orchestra mai esistiti, si avverte la lecita fierezza di Mauro Meli: è stato lui a portare Kleiber in Italia per l'ultima volta, a Cagliari , nel 1999, per due eccezionali concerti.
Una vita operosa e un'attività incessante, con l'obiettivo fisso di appagare pubblico e critica convenuti ai vari eventi: Cagliari diventa uno dei teatri più in vista d'Italia, Parma addirittura rivaleggia con la Scala. Tutto ciò ha un prezzo: Mauro Meli , abituato a fare tutto da solo o con l'aiuto di pochi, fidatissimi amici, si trova a dover fronteggiare attacchi anche molto aspri da parte dell'allora Sindaco di Parma, Pizzarotti, , sempre basati sui suoi presunti , altissimi compensi. Riprendo questo punto essenziale dell'intervista succitata:
“Come spiega la dura polemica attuale con il Sindaco Pizzarotti e la questione dell'orchestra del Regio, licenziata così...di punto in bianco?-
“ L'orchestra è stata licenziata 3 anni prima della scadenza del suo mandato.
Rimpiazzata da un'orchestra, la Toscanini, che era nata per essere un'orchestra
regionale....mah....mi chiedo perchè? Sembra un dispetto....Poi anche questa polemica
con il Sindaco non la capisco: Lui continua dire che io ero costosissimo e che la nuova
gestione è meno onerosa....Ma se io prendevo 200.000Euro lordi l'anno e gli attuali
costano 280.000Euro ???! Dov'è il risparmio? Inoltre io facevo tutto da solo, mentre a
Parma ora sono in due quindi: doppi viaggi, doppie macchine, doppi alberghi, doppi
pasti....mah.... A me non piace criticare i colleghi ma ci sono cose che gridano vendetta:
la questione dell'orchestra licenziata, per esempio. Ma anche il Festival Verdi, che per
Parma dovrebbe essere un fiore all'occhiello, un fatto attrattivo. Ora sono tornati a un
finto Festival, con due titoli, uno a settembre e uno a ottobre. Io credo che ogni format
festivaliero debba avere una formula che assicuri al pubblico una continuità, una serie di
eventi a ciclo quasi continuo. Insomma, diciamolo chiaramente: chi compra un pacchetto
attraverso i tour operators in America, in Giappone , in Finlandia per venire a Parma,
quindi chi affronta un viaggio che finirà con il costargli 2\3000 Euro vuole vedere almeno
4 o 5 cose!! Mi pare logico. Il mio Festival Verdi produceva 12 milioni di Euro di indotto a
fronte di 3 milioni di costi. Queste sono le cifre ufficiali, tutte verificabili.”
Credo sia davvero azzeccato il titolo “La Musica al rovescio” , per il primo libro di Mauro Meli. In Italia quasi tutte le questioni hanno un lato A e un lato B, che è l'esatto opposto. Vero è che se si vuole far cultura e proporre grandi eventi musicali, mantenendo alto il livello, bisogna spendere e con le nostre leggi, con la quasi inesistente defiscalizzazione dei contributi alla cultura della Legge Bray, senza gli emolumenti dello Stato....il cosiddetto “alto livello” ce lo possiamo dimenticare. In questo Meli è categorico: senza l'intervento dei vari governi per la cultura non si va da nessuna parte. Gli uffici marketing dei teatri non garantiscono sufficienti sponsorizzazioni , le grandi stagioni si fanno con i dovuti budget e non con i fichi secchi, nonostante le tante iniziative che possono essere prese.
Sono considerazioni un po' tristi, certo: dal 2011 è tutto un pianto, ci sono teatri e fondazioni liriche che versano in condizioni drammatiche, né si vedono segnali politici in favore di maggiori incentivi, anzi...il contrario. Per molti la Musica, l'Opera , è un passatempo per ricchi annoiati; i musicisti sono visti come buontemponi, perditempo, pazzoidi, un articolo recente descrive professori d'orchestra e artisti del Coro come una casta privilegiata, per lo più lamentosa.
Ecco, io consiglierei questo libro ai beati ignoranti, magari a qualcuno di quei politici che pensano a una fisarmonica quando sentono parlare di Filarmonica. Forse scorrendo alcuni di questi nomi e partecipando idealmente alle scorribande in giro per il mondo di Mauro Meli e dei suoi grandi amici....forse, sarò ottimista...si renderanno conto del formidabile indotto che può creare la nostra cultura, se debitamente sostenuta.
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Domenica 28 Agosto 2016 16:21 |
Nonostante i presagi funesti di questa primavera, l'Arena di Verona con uno scatto d'orgoglio manda in porto la sua stagione 2016 nel migliore dei modi, cioé dimostrando di essere il più importante e “spettacolare” teatro all'aperto del mondo. La nostra stampa specialistico- snobistica storce il naso di fronte a simili affermazioni: son quelli che si commuovono al solo pensiero di poter poggiare i loro nobili deretani sugli scranni di Bayreuth o Salisburgo. Buon per loro: forse non si accorgono che in quei teatri si celebra, con rito lento e inesorabile, il massacro sistematico dell'opera lirica, per grazia di Dio non sempre (ci sono certamente produzioni interessanti, ne cito una per tutte i Maestri cantori di Wagner con la regìa di Herman Hernheim a Salisburgo, o il Ring wagneriano diretto da Thielemann...) ma spesso e volentieri sulla scìa della provocazione fine a sé stessa, come se allestire in modo spettacolare e tradizionale un capolavoro lirico sia una specie di insulto. Capisco anche questo atteggiamento da parte della nostra moribonda critica musicale, ormai travolta e sopraffatta dalle decine di blog e di riviste virtuali comparse in ogni dove: i recensori si annoiano, hanno visto centinaia di rappresentazioni sballottati qua e là come birilli, non tollerano le reazioni del pubblico che vedono come “estranea cosa” rispetto ai loro sacri giudizi, non sanno nemmeno più perchè stanno lì e vanno, come direbbero gli psicoanalisti, in crisi di identità.
Tornando a Verona mi sono goduto in santa pace la magnificenza degli allestimenti di Franco Zeffirelli, creati appositamente per quella vasta frangia di pubblico che va a teatro per vedere uno SPETTACOLO. L'Opera intesa secondo il canone il Lord Burney, “lo spettacolo più lussuoso al mondo”...non lo è forse? O vogliamo davvero credere che questo genere, tanto amato e tanto negletto, possa sopravvivere se fatto con le pezze, magari con l'orchestra campionata...tanto per risparmiare? Zeffirelli è stato il bersaglio prediletto di chi per svariate ragioni vedeva in lui il rappresentante dello “spreco” , dei soldi buttati al vento per obbedire a capricci, dell'eccesso fine a sé stesso, compresi i suoi avversari politici che non gli hanno mai dato tregua. Non voglio qui elencare i costi e gli sprechi che hanno caratterizzato gli ultimi trenta quarant'anni di opera lirica in Italia: paragonando gli allestimenti di Zeffirelli a certe porcherìe viste qua e là, spesso sponsorizzate politicamente da questa o quella fazione, avremmo delle clamorose sorprese. Per carità di patria mi astengo a far conteggi in questa sede e preferisco riferire di ciò che ho visto e udito in questa settimana veronese che ha siglato la stagione 2016. Intanto Carmen di Bizet, Turandot di Puccini e Trovatore di Verdi, cioé i tre spettacoli migliori di Zeffirelli in Arena. Del Trovatore ho riferito nel mio precedente pezzo, una serata magica grazie anche al magnifico cast vocale (Karahan-Manrico strepitoso , la Urmana vittoriosa Azucena, il nobilissimo baritono Piazzola capace di riportarci ai tempi del miglior Bruson, Oren sul podio). Di Turandot dirò che non si dimentica la magìa della pagoda dorata invasa da nuvole rosa e la perfezione dei movimenti scenici secondo i dettami della partitura, con una festa finale a coronamento dell'ultimo capolavoro di Puccini: pura Bellezza. E qui voglio fare una veloce considerazione sulla Bellezza, in questi anni in cui ci sentiamo aggrediti dalla Bruttezza, in tutti i sensi. La Bellezza, in quanto tale, è OGGETTIVA, come diceva Wilde “La Bellezza non può essere interrogata...regna per diritto divino.” Il gusto per l'abbinamento dei colori, per il disegno delle scene, per come e dove devono muoversi le masse, per come la musica rientra nel disegno magico complessivo, i costumi, l'attrezzeria, le LUCI...questo è Zeffirelli, cantore della Bellezza in Opera. Chi vuole Bruttezza si accomodi pure altrove. Kitsch, esagerato, pleonastico, gusto “pompier” ….ne abbiamo sentite e lette da anni...basta! Avete annoiato, cambiate disco. Ve lo dice uno che ha applaudito entusiasticamente l'Aida rivoluzionaria della Fura dels Baus in Arena , perchè nasceva dallo stesso impegno intellettuale volto allo stesso scopo; e ve lo dice uno che ha proposto, come regista, nello scenario affascinante (ma inadatto all'Opera) di Taormina un'Aida ambientata nel Museo Egizio, con tanto di scolaresche e turisti in scena, perchè Aida è anche questo, perchè l'Opera è comunque s-p-e-t-t-a-c-o-l-o. Nella Turandot in Arena hanno trionfato il direttore d'orchestra, Andrea Battistoni, giovanissimo e permeato da quel 'duende' che trascina ed entusiasma Coro e Orchestra. Non tutto era perfetto, detto col massimo dell’onestà: il gesto tende ad ampliarsi oltre misura con il risultato di portare l'entusiasmo eccessivo a una perdita di controllo. Tuttavia bisogna saper rischiare se si vuole ottenere il massimo da tutti: quanto fuoco, quanta passione, quanta GIOIA in quel ragazzo che mentre dirige sembra comporre la Turandot! Un meritatissimo trionfo per lui. Ottima la coppia femminile con due fuoriclasse: la stupenda Oksana Dyka come Turandot, voce di soprano lirico e non propriamente drammatico ma....meglio così! Abbiamo sentito strillare tanti vocioni, la parte di Turandot è tutto un susseguirsi di note da cantare piano e pianissimo, non sono solo acuti a gola spiegata. La Turandot della Dyka era dunque cantata dalla prima nota all'ultima e , per fortuna, bella d'aspetto e di portamento. Cosa che non capita di frequente, ammettiamolo. Donata D'Annunzio Lombardi, in possesso dei più bei pianissimi oggi al mondo, e lo dico senza tema di smentita: meravigliosa interprete, sensibile, timbro ideale, tecnica strepitosa. So che si è salvata per puro miracolo dal disastro di Amatrice e che ha cantato senza aver dormito per due giorni, dopo il sisma . Calaf era Walter Fraccaro che ci riporta al classico “tenore utilité” , cioé quegli artisti che dove li metti li metti...fanno dormire tranquilli i direttori artistici: cantano tutte le note (anche i perigliosi do acuti), sono precisi musicalmente, intonati...cosa vuoi di più. Beh....per Calaf qualcosa in più ci vorrebbe: Fraccaro ha un timbro di natura chiaro e troppi suoni 'schiacciati' per tenere alta la posizione senza far fatica, con lo spiacevole risultato di camuffare alcune pronunce sugli acuti (“ che non sorride più, che nEEEEEn sorride più”.....ec.) . Probabilmente è nato come ideale Alfredo in Traviata o Nemorino in Elisir, e si ritrova per la facilità e la musicalità a cantare ovunque Radames, Calaf, Manrico, Don Alvaro e chi più ne ha più ne metta. Molto applaudito, ripeto, per la sicurezza spavalda e la tranquillità che esprime. Porrei in rilievo la prova delle ottime Maschere (Marcello Rosiello, Francesco Pittari e Giorgio Trucco) , il perfetto Paolo Battaglia come Mandarino , Cristiano Olivieri come baldanzoso Altoum e Carlo Cigni, solido Timur.
Veniamo a Carmen, altro capolavoro zeffirelliano, orbato però di tutta la città di Siviglia che era stata ricreata sulle gradinate del fondo scena. Dove siano finite, nessun lo sa: ho provato a chiedere....varie versioni...peccato...perchè completavano la più bella Carmen che si sia mai vista in un teatro d'Opera, al chiuso o all'aperto. Anche qui le masse , imponenti, si muovono seguendo un percorso di dettagli infinito, impossibile enumerarli tutti perchè ogni comparsa, ogni corista diventa un solista, impegnato in una parte precisa. Plauso ovviamente alle masse areniane, al Corpo di ballo diretto da Gaetano Petrosino, alle deliziose Voci bianche di Paolo Fancicani e al maestro Julian Kovatchev, come si suol dire: una sicurezza. Le coreografie di Lucia Real sono sempre un “must” apprezzatissimo dal pubblico che quello si aspetta e quello...ha. In Carmen mi è piaciuta moltissimo la Micaela di Valeria Sepe, la voce più sonora e proiettata della serata assieme a quella del tenore Stefano Secco, il quale non nasconde le sue orgini di tenore “leggero” e non cerca sonorità strane o diverse: canta con la sua voce e fa bene a farlo. La coppia Don José-Micaela era ampiamente vincente sul resto del cast, nonostante Aguna Kulaeva avesse tutti i numeri per essere in potenza una grande Carmen: purtroppo le è mancato un po' il temperamenti giusto, la carica emozionale, quel “quid” che rendeva indimenticabile, per esempio, Denyce Graves o la Bumbry, persino nelle sue ultime recite areniane. Tra gli altri ho apprezzato molto Paolo Battaglia come Zuniga, il Morales di Gianfranco Montresor , in parte l'Escamillo di Alexander Vinogradov, dalla pronuncia un po' troppo “russa”. Clarissa Leonardi era di gran lunga più veemente e poderosa come Mercedes rispetto alla timida Teona Dvali come Frasquita, mentre funzionava benissimo la coppia Ceriani-Pittari per Dancairo e Remendado.
Più debole l'Aida di Verdi,non per colpa dell'allestimento che è grandioso e solenne quanto basta per assicurarne la buona riuscita , bensì per la parte vocale che in quest'opera non perdona alcuna défaillance. Stranamente abbiamo visto un Daniel Oren stanco e quasi demotivato sul podio, tanto da causare alcuni notevoli pasticci nel concertato e nel finale del Trionfo, laddove tocca essere concentratissimi e precisi. Notevoli tuttavia i momenti più lirici, l'accompagnamento delle arie e dei duetti, soprattutto il meraviglioso finale. Il tenore, l'esordiente Mikhail Sheshaberidze, mi è sembrato molto rigido e con acuti non ben proiettati, in gergo diciamo “indietro” , il che non deve succedere in un giovane dai mezzi e dal timbro promettenti e dalla ottima musicalità. Il suo, a onor del vero, è stato un salvataggio last minute, quindi vi è qualche parziale discolpa. Tuttavia il consiglio di mettere a posto la parte acuta del registro e di non forzare i tempi su taluni titoli resta, anche in queste situazioni. Molto bene Maria José Siri nel ruolo di Aida: sicura, svettante, tantissimi i colori, ottimi pianissimi, un bel personaggio dinamico in scena , sempre cercando di aiutare il partner. Qualche bella frase di Andrea Ulbrich come Amneris ,ma troppe difficoltà sui punti chiave e un piccolo naufragio nella Scena del Giudizio, con un affanno che le ha impedito di sovrastare le difficoltà terribili della parte. A fronte di uno stupendo Messaggero, con voce superiore a quella di Radames, Paolo Antognetti (bella forza, mi direte, son due frasi: sì, ma bisogna saperle cantare...e Antognetti è un tenore pronto per le prime parti), un Amonasro invece di non eccelsa qualità, Sebastian Catana , che tuttavia ha svolto il proprio compito con diligenza. Nella gara dei due bassi, Gianluca Breda come Re si è pappato il Ramfis di Sergej Artamonov. Molto brava Elena Borin come Sacerdotessa e il Corpo di Ballo per le Danze del II atto.
Ogni sera parecchio pubblico, eccettuato qualche buco nei costosi posti di platea, ma uno scenario degno dell’Arena per tutte le opere, con pienone per Turandot e Trovatore.
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